#Mediastorm 90 – Scene di lotte di classe nello streaming musicale
La "coda lunga" è diventata troppo lunga?
I dati sul consumo dello streaming musicale fanno sempre una certa impressione per l’enorme quota di tracce che generano pochissimo se non, addirittura, nessun ascolto (proprio quest’ultime sono addirittura il 25% del totale). Seppure, come ho scritto nella Rassegna di gennaio, ormai questa è una tendenza che non rappresenta più una novità, ha valore fare qualche riflessione.
Secondo i dati dall’agenzia Luminate per il 2023 i brani che hanno generato nell’anno1 soltanto tra 1 e 1.000 ascolti sono stati il 61,2% dei 184 milioni presenti complessivamente su tutte le piattaforme; mentre quelli che vanno oltre quota 1.000 stream fino a raggiungere il vertice della piramide (i brani con oltre un miliardo di stream) hanno rappresentato il 13,8%. La prima categoria di tracce, quindi, è più grande di circa quattro volte e mezzo la seconda.
C’è, in questa direzione, un dato ancora più sorprendente: circa l’80% (per la precisione l’80,86%) degli artisti presenti su Spotify non ha raggiunto i 1.000 ascoltatori mensili, lo si apprende dal report annuale dell’agenzia Chartmetric (che monitora oltre 9,7 milioni di artisti). Il dato è molto interessante perché aggiunge un tassello fondamentale ai dati precedenti riferiti agli ascolti dei singoli brani.
Quindi riepilogando:
tre quinti di tutte le tracce, con almeno un ascolto, presenti nelle piattaforme streaming audio non supera i mille ascolti,
i quattro quinti degli artisti su Spotify non va oltre i 1.000 ascoltatori medi mensili.
Insomma la “coda lunga” è oggi diventata una “coda enormemente lunga” che continua a crescere nel tempo.
E questo pone oggi una questione fondamentale per l’intera industria musicale (ma in prospettiva dell’intero ecosistema dei media), sia a livello di modello economico che per le modalità con le quali consumiamo i suoi “prodotti”:
come dovremmo considerare questa massa enorme di artisti e brani che non superano “quota 1.000” ma rappresentano la stragrande parte di quello che popola le librerie musicali delle piattaforme streaming? Una risorsa dalla quale attingere per trovare cose interessanti e dare voce a chiunque abbia qualcosa da esprimere o, al contrario, qualcosa da cui liberarci perché occupa la nostra attenzione “inquinandola” con qualcosa che non ha davvero valore?
Benvenuta, benvenuto, io sono Lelio Simi e questo è il novantesimo numero di #Mediastorm una newsletter di appunti, storie, segnalazioni, dati e approfondimenti per capire come la tecnologia ha trasformato/sta trasformando/trasformerà l’economia delle industrie dei media e il nostro rapporto con i loro “prodotti”. Se non lo sei già, puoi iscriverti da qui:
Se dopo averla letta hai suggerimenti, domande o segnalazioni da farmi puoi scrivermi a questa email leliosimi@substack.com, oppure se quello che ho scritto ti suggerisce delle riflessioni che vuoi condividere, oltre che con me, anche con gli altri lettori puoi usare direttamente la sezione commenti, sarò felice di risponderti. Se invece vuoi consultare le altre puntate di questa newsletter puoi farlo da qui ► Archivio #Mediastorm.
🟠 La battaglia della Universal contro la coda lunga (e TikTok)
Per il CEO della casa discografica più grande la mondo, la Universal Music Group, la risposta alla questione è molto semplice: “spazzatura”.
“Mi spiace, non riesco davvero a pensare a un’altra parola per indicare contenuti che nessuno vuole davvero ascoltare. Quindi, se stai commettendo una frode o inondando la piattaforma con contenuti che non coinvolgono assolutamente i fan, non fanno vendere l’ottima musica degli artisti professionisti, allora suppongo che non sarai a favore di un sistema di remunerazione incentrato sugli artisti”.
E infatti oggi il punto fondamentale è il modello di remunerazione per lo streaming “incentrato sugli artisti” (così proclamato dalle major).
In sostanza: le grandi case discografiche vogliono (e stano ottenendo) per lo streaming un sistema (tendenzialmente) “maggioritario” che premia chi genera un grande numero di ascolti (e di conseguenza penalizza chi ne ottiene pochi), in sostituzione del modello “proporzionale”, generalmente utilizzato dalle piattaforme, dove uno stream vale uno e il compenso è ottenuto semplicemente dalla somma aritmetica degli ascolti generati.
Nel frattempo Spotify sta apportando modifiche importanti al proprio sistema di royalties e, tra le altre cose andando incontro alle richieste delle major, ha decisoche, da inizio 2024, le tracce che hanno realizzato meno di 1.000 ascolti nell’anno precedente non verranno retribuite. I fondi a loro precedentemente assegnati verranno redistribuiti ai brani con maggiore ascolto (con tempistiche e modalità ancora da definire). Leggendo il comunicato di Spotify:
Oggi Spotify ospita oltre 100 milioni di tracce. Decine di milioni di esse sono state ascoltate in streaming tra 1 e 1.000 volte nell'ultimo anno e, in media, tali brani hanno generato 0,03 dollari al mese.
Nel complesso, questi piccoli pagamenti ammontano a 40 milioni di dollari all’anno, il che potrebbe invece aumentare i pagamenti agli artisti che dipendono maggiormente dalle entrate dello streaming.
Ma è chiaro che, come ha scritto sul proprio blog la società di analisi Midia Research:
Il grande piano dell’azienda [la Universal] è quello di riaffermare il controllo su un’industria musicale che sta cambiando. Nel regime del licensing da lei voluto, sebbene sia stato denominato “incentrato sull’artista”, in realtà riguarda la gestione degli effetti di una coda lunga in rapida crescita e del rallentamento degli abbonamenti allo streaming.
È in questo quadro si colloca la scelta di Universal di togliere la propria musica da TikTok: le major, e la Universal in particolare, vogliono un sistema di retribuzione dello streaming a più livelli (per il momento accontentandosi di due) su base meramente quantitativa che si avvicini il più possibile al modello economico pre-streaming nel quale esercitavano il ruolo di assoluti gatekeeper.
Il fatto poi che TikTok pesi sui ricavi della Universal soltanto per un misero 1% (un dato, anche questo, per molti versi “sorprendente”, rivelato dalla stessa Universal nella sua nota stampa) è significativo di come il consumo di musica e più in generale di qualsiasi contenuto — e di conseguenza la sua monetizzazione — stia radicalmente cambiando nelle dinamiche innescate dai social media basati dai contenuti generati dagli utenti (e dalla possibilità per gli utenti di monetizzare direttamente la loro attività su questi social).
Leggo ancora dal blog di Midia Research:
TikTok è molto più che semplice strumento di marketing. Sta diventando una forma di consumo musicale a pieno titolo, che compete più che mai con il tempo trascorso in streaming.
I video social continuano a crescere e a costituire una propria forma di consumo, il divario di valore tra l’elevata quantità di attività musicale sulle piattaforme social e il loro contributo relativamente basso alle entrate dell’industria musicale si sta ampliando.
Nel corso del tempo, questo trasformerà le piattaforme di streaming in hub per l’establishment e le piattaforme social in hub per gli artisti indipendenti e i creatori nella coda lunga. La Universal che adesso rimuove la sua musica da TikTok non fa altro che allargare il divario, separando la sua musica e altri artisti delle major dal resto del settore. Quindi, anche se TikTok non cede, Universal ottiene ciò che vuole: tracciare una linea nella sabbia.
🟠 Nel fondo della coda lunga la “mobilità sociale” è un miraggio
C’è da dire che anche nella “testa” non mancano le turbolenze, un po’ di tempo fa ho dedicato una puntata di questa newsletter al fatto che le major vogliono da qualche tempo dipendere sempre meno dalle superstar e le superstar dalle case major.
Con un mercato dell’attenzione sempre più frammentato il peso dei primi dieci brani nello streaming ha visto, in questi anni, diminuire costantemente il proprio peso nelle piattaforme streaming.
Le superstar hanno iniziato un percorso che sta cambiando il loro modello di business in modo da monetizzare direttamente la loro base di fan, rivendicando dalle major e dalle piattaforme la possibilità di avere accesso a una maggior quantità di dati per “leggere” e capire meglio le dinamiche che definiscono il loro successo oltre alla semplice vendita di dischi. Per questo hanno bisogno di essere meno legate alle grandi case discografiche che impongono contratti che, nella maggior parte dei casi, finiscono per controllare tutte le diverse tipologie di ricavi.
Nel nuovo mercato dell’attenzione insomma dove la “coda lunga” come abbiamo visto si sta allungando sempre più e, grazie a questo, le “nicchie” di mercato hanno un valore sempre maggiore, “quantità” e “qualità” dell’attenzione non sono due concetti che vanno necessariamente a braccetto, anzi, c’è chi sostiene che la forbice tra questi due parametri si stia allargando favorendo chi riesce a creare un rapporto più stretto e diretto con i propri fan. Al di là del loro numero.
C’è però ancora un dato — lo fornisce ancora Chartmetric che ha suddiviso in sei “classi” gli artisti in base al loro successo misurato da una metrica messa a punto dall’agenzia — e risponde a un’altra domanda fondamentale oggi in questo quadro: qual è la reale capacità e prospettiva per gli artisti di uscire dal fondo della cosa lunga?:
nel 2023, solo lo 0,05% di tutti gli artisti “undiscovered” è entrato nelle fasi di carriera di “livello medio”, “mainstream” e “superstar”. La maggioranza, ovvero l’87,6%, è rimasta nella categoria, mentre il 12,3% è passato alla categoria “developing”.
Il sogno di salire rapidamente la scala del successo sembra destinato, secondo questi dati, a rimanere appunto un sogno. Resta dunque un “corpo medio” che sta lì, nel mezzo tra le superstar e i piccoli artisti sotto quota 1.000: un corpo che varia tra il “poco più di un insuccesso” e il “poco meno di un grande successo”, dove le grandi case discografiche hanno più interesse ad operare per affermare il loro ruolo di “regolatori del traffico”.
Tuttavia sarà interessante vedere nel prossimo futuro il reale impatto delle nuove modalità di consumo di musica offerto TikTok, YouTube o Instagram a forte componente video, e di come musicisti e creator musicali della coda lunga sapranno adattarsi alle “logiche” che governano gli algoritmi di queste piattaforme.
#Mediastorm è anche il titolo del mio libro edito da Hoepli nella collana Tracce, qui la sua scheda, Lo puoi trovare in libreria oltre che sui principali store online → Hoepli, Amazon, Bookdealer, Ibs, Feltrinelli, Mondadori.
È davvero tutto per questo numero, grazie per aver letto fino a qui.
In questo periodo non riesco a rispettare la cadenza abituale di pubblicazione, me ne scuso e prometto di riprendere le vecchie abitudini al più presto.
Alla prossima puntata.
Lelio
forse non è superfluo fare notare che sono dati riferiti ai dodici mesi del 2023, quindi ad esempio: un brano del 2018 che ha, facciamo, 10.000 ascolti totali potrebbe averne totalizzati oltre 9.000 nei precedenti anni e, nel 2023, invece meno di 1.000.