#Mediastorm 73 – Contenuti o tecnologia?
In questo numero:
Contenuti o tecnologia, cos’è più importante per una media company?
I quotidiani italiani abbandonati dalla “generazione di mezzo”.
Tre infografiche sulle industrie dei media.
Cose interessanti da leggere.
I 50 anni del videogioco che ha “cambiato il mondo”.
Cosa conta di più oggi per una media company, i contenuti che offre al pubblico o la tecnologia che li gestisce e distribuisce nelle sue piattaforme? È una domanda che insegue le industrie dei media da anni e che può avere risposte diverse a secondo dei contesti nei quali la poniamo.
Ma è una domanda che oggi sembra poter dividere in due categorie distinte le media company. E no, non mi riferisco a una divisione tra aziende con un background tecnologico (come Netflix o Spotify) da quelle tradizionali (come Disney o la Universal Music). Probabilmente oggi è più interessante e appropriato — per rispondere molto meglio agli scenari che si stanno delineando — distinguerle in modalità diversa.
Ad esempio: in questi giorni uno dei più attenti osservatori del mondo dei media e della tecnologia come Benedict Evans ha ribadito un concetto, che sostiene da un po’ di tempo (ne ho già scritto in una precedente puntata), affermando che le domande importanti per Netflix non sono tanto quelle sulla tecnologia ma sui suoi contenuti.
Questo perché, in sostanza, Netflix opera nello stesso identico modo di aziende come Disney o Paramount (o Mediaset e la Rai nel mercato delle produzioni in italiano) per quanto riguarda la realizzazione di film e serie Tv. Ed è su questi che gioca la partita con i suoi concorrenti diretti.
Anche perché media company tradizionali come Disney o Paramount, in poco tempo, hanno lanciato piattaforme streaming che si allineano agli standard tecnologici richiesti dal mercato, pur non avendo il background tecnologico di Netflix (anche Mediaset e la Rai hanno lanciato le loro piattaforme ma magari dovrebbero valorizzarle e crederci un po’ di più, ma questo è un altro discorso).
Ed è proprio questo modo di produrre contenuti in modo tradizionale —nei budget, nell’iter creativo, nelle professionalità utilizzate— che unisce aziende tecnologiche e non come appunto Netflix, Disney, Paramount, (o la Rai, o Mediaset), e allo stesso tempo le diversifica nell’offerta da altre come YouTube e TikTok. Scrive Evans:
“Netflix può realizzare programmi TV così come qualsiasi compagnia televisiva legacy, ma la Disney ha realizzato un software che è buono come Netflix? Non ne aveva la necessità. Doveva solo creare un software abbastanza buono, perché le domande sul ‘software’ non sono il punto di leva. Ma non vedo alcuna società di media in competizione con YouTube o TikTok, dove il software è il punto di leva”
E in effetti. YouTube e soprattutto TikTok stanno puntando tutto sull’economia dei creatori dove la loro tecnologia — ad esempio le diverse feature “creative” che mettono a disposizione — svolge un ruolo fondamentale per attirare sempre più creator (e quindi contenuti) assieme alle modalità con le quali condividono con loro i ricavi da pubblicità.
Un utente che deve scegliere a quale piattaforma abbonarsi tra Netflix o Disney+ (o HBO Max o Paramount+) non sceglie in base alla loro tecnologia ma in base al loro catalogo; così come un regista o uno showrunner sceglierà di legarsi a una di queste aziende in base a parametri economici e di strategie ma non sulla tecnologia.
Mentre per un creator YouTube o TikTok sono un canale, una piattaforma, un meccanismo di scoperta e un modello di entrate, sceglierà di puntare più su una o l’altra a secondo della qualità di questi parametri dove la tecnologia gioca un ruolo fondamentale.
E se è davvero difficile immaginare oggi Netflix o Disney che si “aprono” a video prodotti da creator con le loro library invase da video brevi a scorrimento verticale, è altrettanto vero che la competizione non è tanto nelle singole aree di mercato (video, musica/audio, scrittura/notizie/newsletter) ma nella più ampia arena della nuova economia dell’attenzione. Tutti contro tutti.
Una competizione che si gioca, ha valore ricordare, su campi comuni, dal tradizionalissimo schermo di un televisore (certo nella sua versione smart) a quello di un telefonino.
Le media company che propongono prodotti creativi “tradizionali” (tra le quali includo a questo punto anche Netflix) devono tentare, o dovranno tentare prima o poi, una sintesi tra questi due approcci o andare dritti per la loro strada?
A proposito di sintesi, tutti ci ricordiamo il tentativo miseramente fallito di Quibi, è interessante rileggere quello che scriveva The Verge quando, un paio di anni fa elencava gli 11 motivi per cui Quibi si è schiantato e bruciato in meno di un anno:
Quibi non ha fallito perché esisteva TikTok; ha fallito perché i dirigenti si sono rifiutati di vedere TikTok come la loro più grande concorrente. Invece di imparare dalle stesse app sulle quali le persone trascorrono ore ogni giorno, Quibi ha alzato il naso e ha detto: “stiamo facendo qualcosa di diverso”, anche se nessuno è particolarmente interessato.
Spotify per il momento sta nel mezzo al guado. Il suo catalogo nella musica e nei podcast presenta già sia contenuti prodotti tradizionalmente (nella musica non direttamente da lei) che da creatori; per un po’ di tempo indecisa su cosa fare oggi sembra— dalle ultime decisioni prese — cercare una sintesi dirigendosi con maggiore convinzione verso la creator economy/TikTokizzazione, già ma con quali conseguenze?
Le major discografiche chiedono una diversificazione dei ricavi proprio perché impaurite dalla enorme quantità di piccoli e medi artisti che popolano la sua library (nel 2022, un quarto dei 57.000 artisti che hanno guadagnato 10 mila dollari o più in royalties da Spotify sono auto-distribuiti), oggi cercheranno di far valere il loro peso sulle decisioni strategiche di Spotify.
Tuttavia è molto interessante vedere come il modello ibrido che sta tentando di sviluppare Spotify andrà avanti, e se un suo eventuale “successo” potrà cambiare l’attuale scenario, anche ad esempio ne l campo dello streaming video.
Benvenuta, benvenuto, io sono Lelio Simi e questo è il settantatreesimo numero di #Mediastorm una newsletter di appunti, storie, segnalazioni, dati e approfondimenti per cercare di capire come la tecnologia ha trasformato/sta trasformando radicalmente l’economia delle industrie dei media (e il nostro rapporto con i loro “prodotti”). Se non lo sei già, puoi iscriverti da qui:
Se dopo averla letta hai suggerimenti, domande o segnalazioni da farmi puoi scrivermi a questa email leliosimi@substack.com, altrimenti se quello che ho scritto ti suggerisce delle riflessioni puoi usare direttamente la sezione commenti, sarò felice di risponderti. Se invece vuoi consultare le altre puntate pubblicate puoi farlo da qui ► Archivio #Mediastorm.
📰 I quotidiani italiani abbandonati dalla “generazione di mezzo”
Torno su uno dei punti che avevo affrontato brevemente nel numero precedente di questa newsletter: il peso delle diverse fasce di età sulla (decisa) flessione dei lettori del quotidiano di carta in Italia. Come ho sintetizzato più volte dai dati emerge che la generazione che più influisce sull’abbandono del quotidiano di carta è quella “di mezzo” ovvero i 25-44enni.
Per questo ho trovato interessante fare un grafico dove, a differenza della scorsa volta, si mettono in risalto tutte le fasce di età monitorate da Audipress e metterle a confronto con i dati di dieci anni fa (il riferimento è sempre il giorno medio e l’aggiornamento di dicembre fatto da Audipress).
Come si vede dal grafico proprio i 35-44enni sono quelli che più “mancano” nel differenziale tra 2013 e 2022. Ovvero la fascia di età che venti anni fa — quando i primi siti dei giornali si diffondevano online — aveva tra i 15 e 24 anni (e aggiungiamo una decina di anni per quando lo smartphone cominciava ad imporsi).
Sarebbe interessante studiare questi flussi più nel dettaglio e con parametri più uniformi (mi prometto di farlo), per il momento tenuto conto di un declino ormai strutturale e al di là degli eventi eccezionali — come l’anno della pandemia che ha ulteriormente accelerato questo declino — la domanda è:
C’è una generazione che al momento di dover rappresentare il nuovo “zoccolo duro” dei lettori del quotidiano di carta, in maniera ancora maggiore che in passato mancherà all’appuntamento, al passaggio di testimone, causando una flessione difficile da gestire per gli editori italiani? (Editori di quotidiani che, lo ricordo, in Italia dipendono per lo più dai ricavi della carta per un 70-90% se non, soprattutto in quelli a diffusione locale, il 100%).
📊 Chart, chart, chart!
📺 Guerre dello streaming / Nel quarto trimestre del 2022, la quota globale della domanda di serie originali di Netflix — secondo le misurazioni di Parrot Analytics — è al 39,6%, è la prima volta che scende sotto il 40% ma, in questa speciale classifica, mantiene comunque saldamente la testa visto che vale ben oltre le tre volte Prime Video e quattro volte Disney Plus.
🎶 Industria discografica nel 2022 (Globale) /I ricavi globali sono cresciuti del 6,7% per raggiungere i 31,2 miliardi di dollari nel 2022. Anche se questo è stato significativamente inferiore al 24,8% registrato nel 2021. Lo streaming è stato ancora una volta il principale motore della crescita del settore, con ricavi in aumento di 1,5 miliardi di dollari nel 2022 (crescita dell'8,3%), meno della metà dei 4,2 miliardi di dollari aggiunti nel 2021 (via Media Research).
🎶 Industria discografica nel 2022 (Stati Uniti)/ Il valore dello streaming musicale negli Stati Uniti nel 2022 è stato di 13,3 miliardi di dollari, in crescita rispetto agli anni precedenti e pesa per l’84% sui ricavi totali della musica registrata (dal rapporto di fine anno della RIAA)
👓 Un po’ di cose da leggere
Perché l’Italia esporta così pochi format televisivi originali? A margine di un mercato, una conversazione a ruota libera tra due addetti ai lavori (su → Link idee per la TV). Accumulando indizi per rispondere a una domanda atavica, ma senza soluzioni facili.
Cosa sta succedendo alla più grande catena di giornali degli Stati Uniti? Gannett ha eliminato più della metà dei suoi posti di lavoro negli Stati Uniti in quattro anni. Il tutto dopo la fusione con l’altra grande catena di giornali locali americana, di fatto è come se uno di questi due gruppi fosse semplicemente stato cancellato dalla faccia della terra (→ NiemanLab).
Il social semiautomatizzato sta arrivando. Ha senso che sia proprio LinkedIn il primo grande social network a introdurre i contenuti generati dalla AI. Il social di proprietà di Microsoft è pieno di post di workfluencer e post furbetti per aumentare l'engagement che spaziano dal tono da consulente di gestione insipido a quello allegramente psicotico. Che è il medesimo spettro emotivo nel quale l'AI tende a operare (→ The Verge).
La lunga strada dell’intelligenza artificiale Il termine “Intelligenza Artificiale” appare per la prima volta nel 1956, quando l’informatico e scienziato cognitivo americano John McCarthy lo conia in occasione di un seminario estivo presso il Dartmouth College. Primo di tre articoli di Annamaria Testa (su → Internazionale) molto utile per contestualizzare, fino dalle sue origini, l'evoluzione della AI.
ChatGPT non pensa veramente, ma noi ne siamo ancora capaci? Il mondo della AI è stato preso di sorpresa dagli algoritmi generativi basati su modelli linguistici a larga scala. In sedi anche molto diverse, studenti, insegnanti, esperti di intelligenza artificiale, impiegati e imprenditori si stanno interrogando sulla effettiva capacità di questi algoritmi di imitare o persino riprodurre la mente umana (→ L’Indiscreto).
📘 #Mediastorm è anche il titolo del mio libro edito da Hoepli nella collana Tracce, qui la sua scheda, Lo puoi trovare in libreria oltre che sui principali store online → Hoepli, Amazon, Bookdealer, Ibs, Feltrinelli, Mondadori.
👋 Prima di salutarci…
🕹️ Mezzo secolo di Pong, il videogame che ha “cambiato il mondo”. “Questo marzo celebra i 50 anni da quando Atari ha rilasciato Pong come gioco arcade a livello nazionale al pubblico americano. È stato creato e pubblicato per la prima volta mesi prima qui nella Bay Area, prima di avere rapidamente un impatto culturale ed economico molto più ampio”.
“Per molti versi, Pong è stato il momento del big bang che si è verificato dopo che i primi pixel di gioco avevano iniziato a formarsi insieme anni prima. Un momento pionieristico chiave, in tal senso, si è verificato al Massachusetts Institute of Technology nel 1961, poco dopo che la Digital Equipment Corporation ha donato alla scuola il suo ultimo computer all'avanguardia, il Programmable Data Processor-1. Con un peso di oltre 1.500 libbre e occupando lo spazio di una piccola automobile, il PDP-1 vantava ben 9 kilobyte di memoria. Eppure la sua caratteristica più notevole era che funzionava attraverso un monitor, una caratteristica nuova e innovativa che creava un'interfaccia unica e di facile utilizzo”.
“È facile sottovalutare quanto sia estremamente redditizia l'industria dei videogiochi oggi. Un recente rapporto del New York Times ha affermato che nel 2021 ha raggiunto ‘quasi 200 miliardi di dollari, più della musica, dell’editoria statunitense e degli sport nordamericani messi insieme’. Se questo sembra difficile da capire, considerate che Microsoft sta proprio ora cercando di acquisire la società di videogiochi A-list Activision per la somma colossale di 69 miliardi. L’entità del prezzo proposto è sbalorditiva, andando ben oltre quanto Elon Musk ha speso per acquistare Twitter (44 miliardi) o quanto Disney ha pagato per acquisire i franchise di Star Wars e Marvel (4 miliardi ciascuno)”.
→ ‘It changed the world’: 50 years on, the story of Pong's Bay Area origins, SFGate.
È davvero tutto per questa settimana, grazie per aver letto fino a qui, alla prossima puntata,
Lelio.
#Mediastorm: una newsletter di appunti, storie e idee sul nuovo ordine mondiale dei media a cura di Lelio Simi - n° 73 - 20 marzo 2023.
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[L’immagine di copertina è di Daniel K Cheung via Unsplash l’immagine del logo e nella testata di #Mediastorm è di Francesca Fincato].