#Mediastorm 51 – La tecnologia è (soltanto) una "commodity"?
Le aziende tecnologiche che hanno invaso le industrie dei media pensavano bastasse il loro know-how su digitale per avere un vantaggio competitivo in eterno. Probabilmente si sono sbagliate.
“TV eats software”, ha scritto Benedict Evans qualche settimana fa nella sua newsletter, commentando la pietra miliare raggiunta dalla Disney con 221,1 milioni di abbonamenti ai suoi servizi di streaming (Disney+, Hulu, Espn+).
No, il numero di abbonati (paganti) a Disney non ha superato quello di Netflix (220,7 milioni), come è stato scritto da molti, perché in realtà Disney in questa cifra ha conteggiato come tre abbonamenti separati i bundle, che riuniscono in un unica offerta a “pacchetto” Disney+, Hulu e Espn.
In realtà sono 152,1 milioni gli abbonamenti a Disney+, 22,8 milioni quelli a ESPN+ e 46,2 milioni da assegnare a Hulu. Di tutti questi è facile immaginare ci siano molti abbonamenti sovrapposti (Disney però non ha fornito il dato su quanti abbonamenti sono singoli e quanti a pacchetto).
Per questo se ci riferiamo a quei 221 milioni è decisamente più corretto parlare di volume di abbonamenti che non di singoli abbonati. Inoltre non è un dettaglio trascurabile che 58 milioni di subscription totali a Disney+ provengono dall’India dove il costo dell’abbonamento in media è di 1,2 dollari al mese.
Detto questo resta il fatto che una media company tradizionale come Disney ha fatto debuttare Disney+ nel novembre del 2019 e in soli 19 mesi, partendo praticamente da zero in un settore ad alto contenuto tecnologico come lo streaming, ha raggiunto un volume di abbonamenti di assoluto valore che, probabilmente, a Netflix non pensavano potesse raggiungere in così poco tempo.
Come giustamente ricorda Benedict Evans:
c'è stato un tempo nel quale le persone della Silicon Valley ridevano all'idea che le media company avrebbero mai potuto fare streaming (i googler chiamavano Hulu "Clownco" prima del lancio), ma la tecnologia è una commodity (una commodity difficile, che devi fare bene, ma è comunque una commodity) e oggi in questo contesto le questioni importanti riguardano tutte il settore dei media.
È un cambio di prospettiva importante. Le aziende tecnologiche che hanno conquistato l’industria dei media in questi ultimi venti anni, hanno puntato sul “fattore tecnologico” per conquistare la fetta di mercato più sostanziosa in un mondo che stava cambiando completamente dopo l’avvento di Internet e del digitale.
Le tech company per molto tempo hanno pensato che proprio questo fattore — il loro know-how nel campo tecnologico — desse loro un vantaggio competitivo destinato a durare quasi all’infinito sui propri concorrenti tradizionali (le media company e gli editori che dovevano implementare da zero quelle tecnologie e, soprattutto, assimilare una cultura tecnologica dentro le loro aziende).
Oggi alcune di queste media company, non solo nello streaming come Disney ma anche ad esempio nell’editoria delle notizie (il “solito” New York Times, ma anche altri come il Financial Times o il Washington Post), però stanno dimostrando che la tecnologia è un fattore competitivo che possono giocare alla pari con le aziende native digitali. E questa è una cosa che solo pochi anni fa — a metà degli anni Dieci — a tanti sembrava impossibile.
Certo, come precisa Evans, c'è da tenere di conto che la tecnologia è “difficile” e “va fatta bene” (leggi: ha bisogno di grandi investimenti, che non tutti possono permettersi), ma il fatto che non sia più una discriminante sulla competitività tra aziende tecnologiche e media company tradizionali è un elemento che mette in un nuova prospettiva le dinamiche all'interno delle industrie dei media.
Benvenuta, benvenuto, io sono Lelio Simi e questo è il cinquantunesimo numero di #Mediastorm una newsletter di appunti, storie, segnalazioni, dati e approfondimenti su come la tecnologia ha trasformato/sta trasformando radicalmente le industrie dei media (e il nostro rapporto con i loro “prodotti”). Se non lo sei già, puoi iscriverti a questa newsletter da qui:
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💲 Le guerre dello streaming sono anche guerre del “pricing”
Le cosiddette guerre dello streaming si stanno giocando oggi su molti fronti, uno sicuramente è quello del pricing, soprattutto adesso che Disney e Netflix hanno annunciato offerte di abbonamento sostenute da pubblicità.
C’era molta curiosità su come sarebbero state concretamente queste offerte, secondo prime indiscrezioni raccolte da Bloomberg negli Stati Uniti, il nuovo livello che proporrà Netflix supportato dalla pubblicità costerà “dai 7 ai 9 dollari al mese con 4 minuti di spot ogni ora, la metà del suo piano attuale e più popolare, che ha un costo di 15,49 dollari al mese senza pubblicità”.
Il livello pubblicitario di Disney+ [che dovrebbe essere lanciato a dicembre], costerà invece ai clienti statunitensi 7,99 dollari al mese, il prezzo attuale del livello senza pubblicità del servizio, quello della versione senza pubblicità verrà invece aumentato a 10,99 dollari.
C'è un primo dato in effetti, a differenza di come molti si aspettavano (tra i quali il sottoscritto, per quel che conta), i livelli di costo di questi abbonamenti non sarà molto più economico rispetto ai livelli attuali senza pubblicità, come giustamente ha scritto l'Hollywood Report con queste offerte è stata inaugurata l’"Era of the Not-So-Cheap Ad Tier", l'era degli abbonamenti con pubblicità "non-così-economici".
Qualche considerazione: se veramente le pubblicità non saranno così invasive per preservare l'ottima esperienza utente (da Netflix hanno promesso: la nostra pubblicità non sarà come quella della TV), allora ci sarà il problema di dare delle buone ragioni a chi ha sottoscritto l’abbonamento più costoso senza pubblicità a non scalare nell'offerta più economica.
Una delle principali ragioni per chi aderisce all'offerta a 14,5 dollari è la possibilità di vedere i video in HD, la nuova offerta con pubblicità darà accesso a video in HD o sostituirà quella oggi più economica senza pubblicità e senza HD? In questo secondo caso il cambio di strategia potrebbe essere eccessivamente penalizzante per la nuova tipologia di abbonamenti: mi devo sorbire la pubblicità, ho un abbonamento tecnologicamente inferiore e il prezzo è quello della precedente offerta base. Con questa attrattività i potenziali inserzionisti saranno disposti a investirci soldi?
La nuova strategia degli streamer video, come ha fatto notare Steven Cahall analista alla Wells Fargo, oggi sembra essere data dall'equazione:
livello supportato dalla pubblicità + aumenti dei prezzi + razionalizzazione dei contenuti = prospettive di profitto a lungo termine molto migliorate.
Per il momento quindi è da notare che non è stato scelto nel video il modello Spotify, un abbonamento sostenuto da pubblicità molto economico (per lo streamer musicale addirittura gratuito) per creare un grande ingresso dal quale guidare il numero più ampio possibile di abbonamenti verso l’offerta premium. Chi avrà ragione?
[breve nota: Spotify comunque nell’ultima trimestrale ha registrato il suo maggiore aumento delle entrate pubblicitarie, in decisa controtendenza rispetto a quanto registrato da altre le big tech: queste entrate sono cresciute del 31% anno su anno, raggiungendo i 360 milioni di euro].
📊 Chart, chart, chart!
😱 Brividi. La domanda nei tre generi principali (Thriller, Horror e SF/Fantasy) nel mercato del video digitale negli Stati Uniti divisa per fasce di età (via Statista).
📺Il sorpasso. Negli Stati Uniti secondo rilevazioni Nielsen di giugno 2022 i servizi di streaming video hanno superato i canali via cavo nel tempo speso dagli spettatori davanti allo schermo TV. Sì, era scritto che prima o poi doveva succedere, ma è comunque un passaggio storico.
🥇Non è TikTok. Almeno per adesso, secondo ricerca del Pew Center, la app più seguita dei teenager americani non è TikTok (come in molti potevamo pensare) bensì YouTube. Da notare nel confronto con il 2014-15 (allora TikTok non esisteva e YouTube non era stata rilevata) il tracollo di Facebook.
➤ #Mediastorm è anche il titolo del mio libro edito da Hoepli nella collana Tracce, qui la sua scheda, Lo puoi trovare in libreria oltre che sui principali store online → Hoepli, Amazon, Bookdealer, Ibs, Feltrinelli, Mondadori.
👋Prima di salutarci…
Blockbuster nostalgia. L’account ufficiale Twitter di Blockbuster Stati Uniti era fermo, come facile immaginare, al 2014; ma dal 2020 ha ripreso a twittare, con maggiore frequenza proprio in questi ultimi mesi, diventando una sorta di luogo della nostalgia per vecchi affezionati della catena di home video. I tweet che una volta informavano i clienti delle iniziative nei negozi adesso sono perlopiù dei meme che ironizzano sul declino e la scomparsa dell’azienda raccogliendo migliaia di interazioni.
È tutto per questa settimana, alla prossima.
Lelio
#Mediastorm: una newsletter di appunti, storie e idee sul nuovo ordine mondiale dei media a cura di Lelio Simi - n° 51 - 4 settembre 2022.
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[L’immagine del logo e nella testata di #Mediastorm è di Francesca Fincato].