#Mediastorm 88– Spotify vs. Netflix
I due giganti dello streaming sono stati spesso messi a confronto ma oggi ha ancora senso farlo? Qualche riflessone sul difficile rapporto tra Spotify e il podcasting
Le due notizie più importanti sulle industrie dei media di queste ultime settimane sono state quelle relative al drastico round di licenziamenti a Spotify (-17% dell’attuale forza lavoro) e il rilascio da parte di Netflix di dati relativi alle ore di visione complessive per singoli titoli riferiti — per la prima volta — all’intero (o quasi) catalogo e non alle semplici “top 10”.
Se n’è molto parlato tra addetti ai lavori (e certo, non solo tra loro) perché in qualche modo sono due “eventi” che segnano un momento fondamentale per due aziende i cui modelli di business, in passato, sono stati spesso messi a confronto, accomunati dal fatto che attraverso lo streaming e gli abbonamenti digitali stavano rivoluzionando l’industria musicale, l’una, e quella cinematografica e televisiva, l’altra.
Oggi in realtà sono due aziende molto diverse sia per i contesti nei quali si muovono che per le scelte strategiche che stanno facendo. Per questo è interessante fare qualche distinguo.
Il deciso taglio di personale (il terzo quest’anno) apparentemente stride confrontato con i dati economici dell’ultima trimestrale dell’azienda: Spotify ha raggiunto 554 milioni di utenti medi mensili (+26% nel confronto anno su anno) dei quali 226 milioni sono abbonati paganti (+16%) e i ricavi sono stati di 3,6 miliardi di euro, il miglior risultato da parecchio tempo a livello trimestrale.
Ma per Spotify aggiungere abbonati e incrementare i fatturati non basta a migliorare la situazione; il problema è che il settore dei podcast per il gigante dello streaming audio non è cresciuto secondo le aspettative. Ed infatti i tagli sono concentrati quasi esclusivamente in quel settore.
Il mercato musicale è ancora saldamente in mano alle major (che controllano circa il 65% dei ricavi della musica registrata), dopo il terremoto Napster una ventina di anni fa, sono riuscite a preservare il valore dei loro cataloghi al nascente settore dello streaming imponendo a Spotify di non produrre direttamente musica e di pagare i diritti di licenza in percentuale dei suoi ricavi (un pesantissimo 70% circa).
Una differenza sostanziale con Netflix, che è riuscito a diventare un produttore di contenuti a tutti gli effetti e che paga le licenze attraverso singole contrattazioni fissando il prezzo per singolo titolo, indipendentemente da quanto frutteranno a livello economico.
Per questo il settore dei podcast è così importante per Spotify perché libero dai pesantissimi vincoli imposti dalle major in campo musicale.
Quello dei podcast, però, è un mercato molto giovane e in fase di strutturazione, può essere definito economicamente deludente se lo si confronta con l’ambizione di Spotify di sottrarsi nel più breve periodo dal giogo delle major discografiche, ma questo è un problema strutturale di Spotify, una sua priorità; non è una metrica corretta da imporre a un intero settore per misurarne lo stato di salute.
Netflix dall’altra parte è un’azienda che è molto cambiata in soli due anni, tra 2021 e 2023, si è adattata a fare cose che il suo top management mai avrebbe voluto fare, se libero di scegliere: introdurre la pubblicità nel modello di business e rendere pubblici dati significativi sull’intero catalogo di serie TV e film.
La grande frammentazione dell’offerta dello streaming video ha però suggerito a Netflix di cambiare strategia proponendo alle persone abbonamenti a costi ancora più contenuti e supportati da pubblicità. Una scelta che, oggi e in futuro, prevede giocoforza una maggiore trasparenza sui dati verso il mercato e gli inserzionisti.
In qualche modo la differenza sostanziale tra i due giganti dello streaming oggi sta qui:
Spotify ha pensato di piegare alle proprie esigenze economiche un intero settore (quello del podcasting) per risolvere dei problemi strutturali del suo modello di business che non sembra in grado di “aggiustare”, mentre Netflix ha invece capito di doversi, seppure obtorto collo, adattare ai nuovi scenari di mercato che lei stessa ha contribuito a creare riuscendo a mantenere il suo modello profittevole.
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🟠 Cosa sta sbagliando Spotify con i podcast?
La grande domanda che accompagna Spotify in tutti questi anni, almeno da quando si è quotata in Borsa, è se mai riuscirà a generare profitti. Non è certo una questione da poco, soprattutto oggi che gli investitori finanziari chiedono maggiore concretezza e non sono disposti a sostenere nello streaming aziende con conti economici in perdita (Spotify ha visto il valore di capitalizzazione dimezzarsi dal 2021 a oggi, per dire).
I diritti da versare alle major per mantenere tutta la loro musica nella sterminata library è — come detto — in percentuale sui fatturati e non a quota fissa, quindi ad aumentare dei primi aumentano anche i secondi, la soluzione trovata è stata quella di puntare sull’audio non musicale, podcast in particolare e, più recentemente, audiolibri (solo qualche tempo fa Daniel Ek il CEO di Spotify dichiarava: “Tutti sottovalutano l’audio. Dovrebbe essere un’industria da centinaia di miliardi di dollari”; “vogliamo essere come Instagram per l’audio”).
Il problema è che Spotify ha investito molto in questo settore aspettandosi degli incrementi percentuali da azienda tecnologica, cosa che non poteva essere, e questo è un problema anche per tutta l’industria del podcasting, come ha dichiarato a TechCrunch Eric Silver, co-fondatore e responsabile creativo di Multitude , un collettivo di podcast indipendente:
“A Spotify hanno fissato i termini della “salute” dell’industria dei podcast in base ai loro parametri come azienda tecnologica, ma le scelte di Spotify non mi riguardano. È solo che in questo settore continuano a fallire, e ora tutti pensano che il podcasting sia morto, il che è molto frustrante.
I robusti tagli del personale di queste settimane si inseriscono in questo contesto: una volta capito che il podcasting non poteva da solo risolvere problemi strutturali dell’azienda, almeno non nei tempi che gli investitori oggi chiedono a Spotify — l’unica strada è quella della drastica riduzione dei costi.
Sebbene una razionalizzazione dei costi sia oggi più che ragionevole per Spotify c’è da considerare quanto potrà concretamente continuare a tagliare le spese in ricerca e sviluppo: nel confronto con il terzo trimestre del 2022, l’incidenza percentuale sui ricavi totali di questa voce è scesa dal 13 all’11%, un dato che se confermato nel prossimo futuro potrebbe ulteriormente rallentare la crescita del podcasting all’interno dello streamer.
🟠 La difficile globalizzazione del podcast
Un’interessante analisi della società Midia Research pubblicata nel loro blog rivela come l’intera industria dei podcast americana stia sempre più guardando a Hollywood come modello, molti manager di broadcaster televisivi o major cinematografiche sono stati chiamati a dirigere società di podcast; in particolare però mi ha colpito questo parallelismo tra la l'ingresso nel mondo dei podcast di Spotify e quello di Netflix nel mondo delle produzioni televisive:
Quando Netflix stava cercando di acquisire legittimità, ha dovuto giocare allo stesso gioco dei suoi concorrenti, scritturando Kevin Spacey per produrre House of Cards. All'improvviso, Netflix non era più soltanto una piattaforma; era un vero e proprio concorrente degli studi di Hollywood.
Spotify ha cercato di fare qualcosa di simile. Nel 2020, la società ha riconosciuto cachet da milioni di dollari a Joe Rogan, al principe Harry e agli Obama per ospitare in esclusiva i loro podcast. L’idea era quella di utilizzare questi nomi di serie A per legittimarsi nel mercato dei podcast e, contemporaneamente, mettere in guardia la concorrenza.
Tuttavia rispetto a Netflix anche su questo punto, mi sembra, Spotify ha un grosso limite.
Netflix infatti ha investito molto in tecnologie, strutture e professionalità per rendere fruibili film e serie TV a un pubblico globale attraverso sottotitoli e doppiaggio di tutti i suoi contenuti.
Questo tra l'altro ha permesso a Netflix di far raggiungere un successo globale a produzioni locali come La casa di carta o Squid Game come mai avvenuto prima per titoli realizzati in Spagna o Corea Del Sud o, in generale, fuori da Hollywood.
Tutto questo però è dannatamente complicato farlo con i podcast (almeno fino ad oggi, in futuro magari l’IA generativa potrebbe cambiare un po’ di cose); così quello dei podcast resta ancora un mercato frammentato e “chiuso” a livello regionale, difficilmente globalizzabile per singolo prodotto: un limite enorme per uno streamer come Spotify che ha i suoi utenti uniformemente distribuiti per tutti i cinque continenti.
Non sorprende quindi che Spotify abbia alla fine chiuso alcune costosissime produzioni esclusive.
🟠 Abbonamenti gratis vs premium
Se l’aumento costante degli abbonati premium non sembra migliorare più di tanto l’efficienza costi/ricavi e i nuovi settori come, appunto, il podcasting non rispondono economicamente come Spotify sperava, cosa rimane da fare?
Una strada sicuramente è puntare su una migliore ed efficace monetizzazione degli utenti gratuiti, quindi dei ricavi pubblicitari.
Ed infatti uno degli obiettivi dichiarati dal top management di Spotify è, da tempo, quello di portare il peso dei ricavi pubblicitari al 20% sul totale. Il problema è che sono bloccati intorno al 13% e non sembrano smuoversi da quella quota.
I dati dicono che negli ultimi due anni la crescita degli abbonati premium sta decisamente rallentando mentre, di contro, è in netta crescita quella dei abbonati sostenuti da pubblicità.
Da sempre Spotify offre il suo intero, sterminato, catalogo gratuitamente a chiunque in cambio di doversi sorbire (molta) pubblicità, con l’obiettivo di ampliare il più possibile la bocca dell’imbuto nel percorso di conversione verso l’abbonamento premium.
Qualche tempo fa l’esperto di marketing Ben Thompson nel suo blog/newsletter Stratechery ipotizzava che anche Netflix avrebbe dovuto proporre il suo abbonamento sostenuto da pubblicità in modalità gratuita:
Questo è anche l'argomento per cui il piano con pubblicità [di Netflix] dovrebbe essere gratuito: il modo migliore per attirare l'interesse dei clienti nel tuo abbonamento premium è farli guardare i tuoi contenuti e infastidirli perché gli annunci pubblicitari impediscono di consumarne di più!
Personalmente ho qualche dubbio; anzi sono dell’opinione opposta: per le offerte di abbonamento dovrebbe essere Spotify a imitare Netflix. Mi spiego meglio:
L’andamento delle due tipologie di abbonati di Spotify —con un maggiore incremento di quelli gratuiti rispetto a quelli a pagamento — rivelano una certa “fatica” per l'utente zero costi e (tanta) pubblicità nel compiere il salto verso l’abbonamento a prezzo pieno e zero pubblicità. E il recente aumento dei prezzi dell’offerta premium sta probabilmente rendendo questo salto ancora più faticoso.
Per questo potrebbe essere interessante per Spotify proporre un abbonamento simile a quelli entry level di Netflix a costo ridotto sostenuto da pubblicità ma con interruzioni da spot meno invasive e qualche feature in meno per dare la possibilità agli utenti di avere una tappa intermedia nel percorso di conversione.
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È davvero tutto per questo numero, grazie per aver letto fino a qui e auguri di buone feste!
In questo periodo non riesco a rispettare la cadenza abituale di pubblicazione, me ne scuso e prometto di riprendere le vecchie abitudini al più presto. Alla prossima puntata.
Lelio.
Interessante paragone tra questi due aziende che fanno parte della nostra quotidianità. Dopo qualche anno in cui ho transitato su altre piattaforme rientro a Spotify: per pigrizia, per abitudine. Buone feste!