#Mediastorm 46 – La "marginalità" di Spotify
Una volta gli bastava dichiarare il tasso di crescita degli abbonati per aumentare il suo valore, oggi c'è bisogno di portare dati sulla sua concreta redditività. E per Spotify questo è un problema.
Quanto valgono 182 milioni di abbonati “premium”? Se ad esempio leggiamo i dati economici di Spotify una risposta potrebbe essere 2,3 miliardi di euro, i ricavi derivati da questi abbonamenti, appunto, nei primi tre mesi del 2022, (in media 3,3 euro un singolo abbonato, se guardiamo la ARPU mensile).
Sì però ci sono i costi necessari a convincere così tante persone a pagare la quota mensile per accedere alla piattaforma audio: dalle royalties pagate alle case discografiche agli investimenti in tecnologie per sviluppare e migliorare continuamente gli algoritmi di raccomandazione necessari per mantenere nel tempo quegli abbonati.
Sono costi che complessivamente pesano enormemente sui bilanci di Spotify, tanto che l’azienda nei bilanci di fine anno dal 2018 (da quando si è quotata in Borsa) a oggi ha sempre registrato dei rossi di bilancio (ne ho già scritto qualche settimana fa).
Per certi versi potremo dire che tutti quegli abbonati per Spotify hanno economicamente un valore negativo. Ma per molto tempo non ci si è badato più di tanto, l’importante era fare crescere a ritmi vertiginosi gli utenti della piattaforma e convertirli poi in abbonati fedeli.
Il numero delle subscription è stato il principale paramento (praticamente l’unico) con il quale si è misurato il valore di Spotify e di molte altre aziende tecnologiche facendo crescere il loro valore in misura nettamente maggiore di quanto crescevano le loro basi di abbonati.
Aziende come Spotify o Netflix semplicemente mostrando incrementi percentuali a doppia cifra dei loro abbonati hanno avuto accesso a sempre maggiori finanziamenti a basso costo che hanno reinvestito per far crescere ulteriormente i loro abbonati e dare vita così a un altro giro di giostra; un meccanismo che ha fatto lievitare i costi senza preoccuparsi molto dell’equilibrio tra ricavi e spese.
Questo spiega, ad esempio, perché Spotify nel febbraio del 2021 ha raggiunto, nonostante i quattro risultati netti negativi nei quattro anni precedenti, un valore di capitalizzazione di quasi 70 miliardi di dollari a Wall Street, oltre tre volte e mezzo la capitalizzazione di un colosso come Warner Music in quel momento (19 miliardi di dollari) che invece qualche utile di bilancio in questi anni lo ha regolarmente messo a segno.
Però un po’ di cose stanno cambiando: ha sorpreso molti che Daniel Ek, il fondatore e CEO di Spotify, nell’incontro pubblico con gli investitori ad inizio giugno abbia citato spesso il margine operativo lordo (gross margin) — un parametro economico espresso in percentuale che tiene conto del rapporto tra fatturato e utile operativo per indicare la reddittività di un’azienda — segno che la crescita degli abbonati non basta più per convincere gli stakeholder a puntare su di te.
Una cosa interessante è che Ek, come riporta l’Hollywood Reporter (THR), ha indicato separatamente la “marginalità” della parte musicale e quella (potenziale) dei podcast:
Con le nuove rivelazioni, Ek ha pubblicizzato che il tradizionale core business dell'azienda [la parte musicale] “sta andando molto meglio di quanto si pensi”, con un margine operativo lordo di circa il 28,5%, al di sopra del margine complessivo dell'azienda con “progressi significativi per raggiungere il nostro obiettivo a lungo termine dal 30 al 35%”.
Sì però ci sono anche i podcast, e come riporta ancora THR:
“Quello che ha trascinato verso il basso [il margine operativo lordo] è il nostro passaggio al podcasting”, ha spiegato Ek premettendo che le perdite avrebbero raggiunto il picco quest’anno, il che dovrebbe aiutare a cambiare la narrativa. Dopotutto, il podcasting “non è ancora redditizio”, ma ha un potenziale margine lordo del 40-50% a lungo termine, ha propagandato.
Ci sono un paio di considerazioni che mi vengono da fare: la prima, abbastanza ovvia, la marginalità di Spotify (la sua redditività) è davvero molto bassa. A confronto con altre aziende di settori dove opera, come Netflix (streaming) e Warner Music (musica/audio) la marginalità di Spotify è decisamente in sofferenza, anche quella del 35%, posta dallo stesso Ek come obiettivo a lungo termine, rappresenterebbe comunque un valore al di sotto di quello di aziende che competono (direttamente o indirettamente) con Spotify.
C’è poi una seconda questione relativa a quel 50% di marginalità posto come obiettivo (sempre a lungo termine, eh) per il settore podcast che oggi è assolutamente fondamentale per Ek e soci per liberarsi dal pesantissimo vincolo degli enormi costi delle royalties musicali imposte dalle major discografiche.
Il punto è che per svilupparlo Spotify sta spendendo molto e dovrà farlo anche nei prossimi anni, il tutto in un mercato — quello dei podcast appunto — ancora molto giovane e da strutturare.
Tuttavia da Spotify si chiede agli investitori ancora fiducia e finanziamenti, sventolando futuri tassi di marginalità di questo settore tutti da dimostrare.
Facendo così a Spotify rivelano però di essere ancora legati alla vecchia logica disposta a sacrificare l’equilibrio costi/ricavi a fronte di una crescita ininterrotta degli abbonati (e/o utenti) che, invece, è ciò che gli viene chiesto di superare. Auguri.
Breve nota a margine:
Anche per questo ho qualche dubbio su operazione fusione Chora Media e Will Media, nonostante ammiri molto i due progetti editoriali e i loro contenuti. Ma una, Chora Media, punta tutto sul podcast (e quindi su piattaforme che li pubblicano come Spotify), l’altra Will Media è in quasi totale dipendenza da un’unica piattaforma, Instagram, che può cambiare le proprie regole d'ingaggio da oggi a domani senza nemmeno avvertirti, (BuzzFeed e suoi grossi problemi con eccessiva dipendenza da Facebook qualcosa dovrebbe aver insegnato). È una scommessa che probabilmente va giocata, ma appunto mi sembra una bella scommessa. Se interessa approfondisco in un prossimo numero della newsletter.
Benvenuta, benvenuto, io sono Lelio Simi e questo è il quarantaseiesimo numero di #MEDIASTORM una newsletter di appunti, storie, segnalazioni, dati e approfondimenti su come la tecnologia ha trasformato/sta trasformando radicalmente le industrie dei media (e il nostro rapporto con i loro “prodotti”).
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📰 Cose da leggere (su media e disruption digitale)
► Il sogno spezzato del programmatic advertising/Gianluca Diegoli/Link — “Il programmatic sta finanziando una progenie di siti in cui il contenuto è chiaramente solo un ripieno di infima qualità per la pubblicità, una generazione di siti che si procaccia traffico con il clickbait sistematico, spesso premiati con traffico ulteriore proprio da Google News e simili. Si apre Google Ads, si dice a Google qual è il proprio sito, si inseriscono immagini e testi, e l’intelligenza artificiale fa il resto. Cosa vuoi?, ci chiede Google. Essere conosciuto? Avere tante visite? Google si mette all’opera, non ci dice quanto costa (solo all’incirca), ma ci promette un risultato. Come lo fa? Non ci deve interessare”.🏷️
► Il valore dei libri è nella loro comunità/Fabio Bozzato intervista Naveen Kishore/The Italian Review — “Come editore indipendente devi sopravvivere, senza lamentarti, altrimenti non stai nel business. Stai facendo anche i conti mentalmente, perché non sei uno sciocco. Non è tutto romantico, ma è anche romantico. E bisogna esserlo, sapendo che ogni pezzo di romanticismo ha una sua matematica. Succede tutto molto rapidamente quando stai lavorando e intanto pensi: questi dieci libri supporteranno i prossimi quaranta. Ma gli editori di oggi non fanno così: vogliono che ogni libro sia un buon profitto”.🏷️
► La cultura pop è morta? Marco Andreoletti/Fumettologica — “Il problema è la sua diffusione eccessivamente pervasiva e volatile. Si è resa più impalpabile e sfuggente, senza appigli al reale a dargli un minimo di peso specifico. Semplicemente molti di noi, tra cui io, non sono riusciti ad adattarsi a questo cambio di passo così drammatico”.🏷️
📊 Chart, chart, chart!
🍿 Box office globale. Il Box office globale ha raggiunto i 2,3 miliardi di dollari, in aumento del 28% rispetto al mese di aprile (1,8 miliardi di dollari). L'ultimo mese ha prodotto i secondi migliori risultati al botteghino americano e internazionale dell'era della pandemia, anche se la Cina ha continuato a rimanere indietro registrando il secondo posto più basso al botteghino dell'intero mese della pandemia [nota: domestic = Stati Uniti]. (Via Gower Street Analytics).
📺 Netflix è (un po' meno) indispensabile, almeno secondo sondaggio Whip Media condotto su 2.460 utenti statunitensi tra le dieci maggiori piattaforme di streaming video, tra le varie domande poste c'era “Se dovessi sceglierne solo una [di piattaforme streaming ] quale sarebbe?” ; pur restando saldamente al primo posto, 12 punti percentuali su HBO Max, Netflix è stato indicato quest’anno dal 31% degli intervistati, 10 punti percentuali in meno dello scorso anno quando aveva totalizzato il 41%. (Fonte Variety).
💲 ARPU a confronto, a proposito di streaming video e abbonamenti premium vs. sostenuti da pubblicità, ecco grafico interessante, riferito al mercato americano, quello più ricco e sotto osservazione per il suo indice di saturazione. Si nota che sì, Netflix ha la ARPU più alta ma, cosa interessante, Hulu (con pubblicità) non è molto distante (fonte: The Ankler).
👋Prima di salutarci…
Le 10 parole più usate dal New York Times ogni singolo anno dal 1900 al 2022, uno straordinario grafico animato dall’account Instagram @datavizsociety.
#Mediastorm: una newsletter di appunti e idee sul nuovo ordine mondiale dei media a cura di Lelio Simi - n° 46 - 3 luglio 2022.
→ #Mediastorm è anche il titolo del mio libro edito da Hoepli nella collana Tracce, qui la sua scheda, Lo puoi trovare in libreria oltre che sui principali store online → Hoepli, Amazon, Bookdealer, Ibs, Feltrinelli, Mondadori.
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