#Mediastorm 38 – Quello di Spotify è un pessimo modello di business?
Cresce il numero degli abbonati paganti ma il titolo crolla in Borsa. Nonostante il grande peso su intera industria musica registrata il suo modello di business ha ancora molti nodi da sciogliere.
Il numero degli abbonati premium di Spotify, dice la sua prima trimestrale del 2022, ha raggiunto quota 183 milioni, in aumento di 2 milioni di unità rispetto al precedente trimestre (+1%) e di ben 24 milioni rispetto a dodici mesi prima (+15%); i ricavi totali sono inoltre in decisa crescita, nel confronto anno su anno, con un +24%.
Tutto bene quindi. No, per niente visto che il titolo ha perso il 55% da inizio anno con una capitalizzazione che dai 47 miliardi di dollari di gennaio è scesa a 20,15 ai primi di maggio.
Perché allora se da Netflix si prevede, per il prossimo trimestre, una perdita di 2 milioni di abbonati il titolo crolla e se da Spotify si registra un aumento rispetto al trimestre precedente di 2 milioni di abbonati, il titolo crolla, pesantemente, lo stesso?
È vero tutti i principali protagonisti dello streaming e della subscription economy stanno avendo momenti molto difficili a Wall Street, in conseguenza di un generale rallentamento dell’economia dell’attenzione; ma per Spotify ci sono, a livello strutturale, delle criticità particolari?
“Le finanze di Spotify dimostrano quanto lo streaming musicale sia un affare terribile” scriveva su The Information già a febbraio il giornalista esperto di media Martin Peers: “Gli investitori si stanno lentamente rendendo conto che lo streaming video, come esemplificato da Netflix, è un’attività ad alto costo con molta concorrenza e nessuna garanzia di guadagno in contanti. L'economia dello streaming musicale, tuttavia, è anche peggiore. Basta guardare Spotify”.
Già, ma perché?
Benvenuta, benvenuto, io sono Lelio Simi e questo è il trentottesimo numero di #MEDIASTORM una newsletter di appunti, segnalazioni, dati e approfondimenti su come la tecnologia ha trasformato/sta trasformando radicalmente le industrie dei media (e il nostro rapporto con i loro “prodotti”).
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Il contesto
A livello globale l’industria della musica registrata nel 2021 è tornata, anzi ha superato, i livelli dei ricavi del 1999/2000 quando aveva toccato il picco massimo della sua storia, fino ad allora, prima del crollo dovuto al ciclone scatenato da Napster.
Tutto questo grazie allo streaming che lo scorso anno valeva tra i 17 e i 18,5 miliardi di dollari ovvero circa il 65% di tutto il comparto. Spotify ha dichiarato nel 2021 un fatturato di 9,67 miliardi di euro, quindi circa il 55% dei ricavi totali dello streaming musicale e il 38% dell’intero fatturato della musica registrata. Se invece prendiamo il numero di abbonati, Spotify ha una quota di mercato dello streaming del 31%, seguito a distanza da Apple Music (15%) e Amazon Music (13%).
C’è inoltre da ricordare che, a differenza di quanto successo nell’industria del cinema e della TV, nello streaming musicale le case discografiche dopo il grande spavento dei primi anni Duemila con Napster, appunto, hanno impedito alle piattaforme tecnologiche di diventare anche dei produttori musicali, mettendolo come condizione per continuare a fornire l’immenso catalogo di loro proprietà.
Spotify quindi non può, alla stregua di Netflix nel video, avere le sue produzioni originali, fondamentali per attrarre nuovi abbonati e, soprattutto, paga moltissimo in licensing alle case discografiche: circa il 70% dei suoi ricavi complessivi. Due handicap di non poco conto, che hanno limitato Spotify nel creare utili in questi anni.
Il limite (per il momento) dei podcast
È per questo che a Spotify stanno puntando molto sui podcast (Daniel Ek il CEO e fondatore dell’azienda ha dichiarato che Spotify deve essere considerata come una piattaforma di streaming audio, non solo musicale): i podcast sono ancora un territorio “vergine” libero dai costosissimi vincoli che limitano Spotify nella musica.
Il problema però è che quello dei podcast – a differenza di quello cinematografico e TV quando Netflix vi ha fatto irruzione – è un mercato ancora in via di strutturazione, alla ricerca di un proprio pubblico consolidato.
In questo contesto, ancora nella sua fase iniziale di sviluppo, le produzioni originali da proporre in esclusiva sono un limite allo sviluppo del suo mercato, certo in teoria sono un’ottima cosa per Spotify e gli altri streamer per attrarre nuovi abbonati ma, di fatto, pessima per i creatori che per assicurarsi un pubblico più vasto hanno tutto l’interesse nel distribuire i loro programmi non soltanto su un’unica piattaforma.
Così si spiega la “fuga” da Spotify annunciata di recente da Barack e Michelle Obama che rappresentavano una delle punte di diamante del catalogo dei podcast in esclusiva di Spotify.
Come fanno puntualmente notare da Midia Research:
“L’investimento nell’audio di Spotify supera quello dei suoi concorrenti, ma ciò non compensa il fatto che l’ascolto complessivo dei podcast rimane ben al di sotto dell'adozione tradizionale con una penetrazione del 19%, con soltanto l’8% degli ascoltatori che si sintonizza quotidianamente. Questo non garantisce che i suoi investimenti in tecnologia audio attraggano nuovo pubblico, ma sottolinea l’importanza di sviluppare ascoltatori fedeli. Inoltre, il picco di ascolto dei podcast durante il lockdow potrebbe aver amplificato la posizione di mercato, con il ritorno delle normali routine, mantenere questo aumento potrebbe essere difficile. C'è un'opportunità per Apple e Google di concentrarsi sullo sviluppo del pubblico audio e far crescere il formato nel suo insieme prima che sia suddiviso in contenuti esclusivi”.
Quindi in sostanza, i podcast sono per gli streamer audio l’unico modo per differenziare la propria offerta dai concorrenti (i cataloghi musicali sono sostanzialmente uguali per tutte le piattaforme) ma è un mercato ancora troppo giovane per essere frammentato con contenuti originali in esclusiva.
I limiti della subscription economy
C’è poi un altro aspetto: circa il 90% dei ricavi di Spotify derivano dagli abbonati premium e solo il rimanente 10% dalla pubblicità. Il mercato degli abbonamenti digitali oggi tende a raggiungere il suo punto di saturazione, puntare (quasi) tutto sulla subscription economy può essere, sempre più, un rischio. Spotify deve cercare di avere un rapporto più equilibrato tra ricavi da abbonamenti e quelli da pubblicità; infatti uno degli obiettivi dichiarati è quello di portare il peso della pubblicità sui ricavi totali al 20%, il che vuol dire raddoppiare il suo peso attuale, non una cosa da poco.
Inoltre, in merito alla subscription economy, c’è un ulteriore aspetto come mette in rilievo l’articolo di The Information che ho già citato:
“Il servizio di streaming musicale ha registrato un flusso di cassa gratuito per un totale di 1,2 miliardi di euro (1,37 miliardi di dollari) negli ultimi cinque anni, molto meno rispetto a Netflix, che ha bruciato 6,5 miliardi di dollari nello stesso periodo. Ciò che non è ampiamente compreso è che il denaro generato da Spotify negli ultimi anni è derivato principalmente delle quote di abbonamento dagli ascoltatori raccolte più velocemente di quanto non vengano pagate le compagnie musicali. Sebbene sia un modo perfettamente rispettabile di operare, non dovrebbe essere l'unico modo in cui un’azienda genera denaro. Cosa succede se le compagnie musicali richiedono improvvisamente un pagamento più rapido?”.
In conclusione
Spotify infine deve migliorare il suo rapporto con artisti e creatori in generale. Alcuni grandi nomi se ne sono andati, qualche tempo fa Taylor Swift (che poi è rientrata) e a gennaio Neil Young e Joni Mitchell, che hanno ritirato la loro musica dalla piattaforma (lasciandola in quelle dei suoi concorrenti) in aperta polemica per i contenuti del podcast di Joe Rogan (la moderazione dei contenuti è un ulteriore grosso problema).
Può questo rappresentare un limite per gli investitori? Forse per il momento no, ma come è stato suggerito: “il sospetto è che Neil Young stia per dimostrare che una fascia di artisti affermati possono fare tranquillamente a meno di Spotify”.
Per quanto riguarda più in generale i creatori: se Spotify vorrà davvero attrarli in quantità per aumentare l'offerta audio dovrà offrire delle possibilità concrete di monetizzare il loro lavoro, da Spotify avevano promesso un fondo per i creatori che, però, non si sa bene che fine abbia fatto, di certo non il modo migliore per costruire con loro un rapporto duraturo.
📈 Chart, chart, chart
💸 La spesa combinata per i contenuti di MediaForEurope (MFE) ovvero il nuovo nome di Mediaset, delle sue operazioni italiane e spagnole è stata nel 2021 di 1,3 miliardi di euro; in Europa si colloca dietro solo ai grandi budget delle emittenti pubbliche: ARD/ZDF, France Télévisions e BBC. “Gli sforzi di MFE per creare valore a lungo termine attraverso partnership transfrontaliere indicano una tendenza a lungo termine nelle tradizionali emittenti nazionali che collaborano per tenere il passo con gli attori globali e recuperare un vantaggio competitivo” scrive Ampere Analysis.
📺 A proposito di streaming video con pubblicità e senza pubblicità, se ne parla molto dopo la “conversione” di Disney+ e Netflix, tra le piattaforme premium SVOD (video on demand in abbonamento) la quota del modello ad-supported negli Stati Uniti tra 2020 e 2022 (da inizio anno a marzo) è passata dal 19 al 35%. (via Antenna)
🦸♂️ Come stanno andando le serie televisive del Marvel Cinematic Universe? Secondo Parrot Analytics, che ha definito un proprio parametro con il quale misura la domanda di un contenuto, delle cinque serie più recenti del MCU (WandaVision, Loki, The Falcon and the Winter soldier, Hawkeye e Moon Knight) “WandaVision ha le prestazioni più forti e più durature. Anche a undici settimane dalla première, registra il declino più lento. The Falcon ha la flessione più netta. A livello globale, la parte centrale di queste serie regge abbastanza bene. Hawkeye è però l’eccezione” scrive in una serie di tweet Julia Alexander senior strategy analyst dell’agenzia.
👋Prima di salutarci…
Un grafico della percentuale di titoli del New York Times che contengono il nome di ciascun presidente degli Stati Uniti dal 1847 al 2021. A naso si intuisce che qualcuno, in questi ultimi anni, abbia attratto un po’ più di attenzione di altri (via account Twitter di Paul Graham).
#Mediastorm: una newsletter di appunti e idee sul nuovo ordine mondiale dei media a cura di Lelio Simi - n° 38 - 8 maggio 2022.
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