#Mediastorm 28 – Netflix è in crisi?
La corsa a incrementare continuamente la base abbonati ha sostenuto la crescita economico finanziaria di molte media company ma oggi sembra non poterlo fare più, serve cambio strategia.
Negli ultimi cinque anni Netflix ha incrementato ogni anno la sua base di abbonati di circa 26 milioni di clienti, nel 2021 questo incremento si è fermato a “solo” 18 milioni, oggi gli analisti finanziari prevedono che ne aggiungerà ancora meno nel 2022. Il titolo di Netflix in questi ultimi due mesi è sceso di circa il 40% (-39,62% dal 24 novembre al 21 gennaio, mentre nello stesso periodo l'indice S&P500 ha registrato un -6,46%).
Eppure chi ha puntato nel titolo, anche solo a gennaio del 2020, nel novembre 2021, dopo un balzo in avanti dovuto al successo planetario di “Squid Game”, ha guadagnato il 40% del suo investimento iniziale (nello stesso periodo S&P500 si è fermato a un +20%).
Netflix in questi anni è stata considerata una delle più potenti macchine da soldi per gli investitori finanziari che hanno utilizzato la costante crescita del numero dei suoi abbonati come il principale (pressoché unico) parametro per decretarne il valore nel mercato di Wall Street.
Certo le fluttuazioni quotidiane in alto e basso in Borsa hanno un valore relativo per dare un giudizio sulla salute complessiva di un’azienda. Ma qualcosa sembra essere davvero cambiato.
Come ha scritto Lucas Shaw nella sua newsletter Screentime di Bloomberg “Sarandos e Hastings si sono guadagnati il beneficio del dubbio. L'azienda si è sempre ripresa con risultati mostruosi. Ma Netflix ha appena pubblicato il suo più grande successo della sua storia, seguito dal suo trimestre più intenso di nuove uscite, ed è comunque cresciuto a un ritmo inferiore alla sua media recente”.
C’è poi da notare come molti concorrenti di Netflix, seppure in misura minore, hanno avuto in questo periodo dei segni meno davanti alle valutazioni dei loro titoli: Disney, Discovery, Roku, ViacomCBS tutte alle prese con quella che viene definita “subscription fatigue” e relative contromosse adottate dagli utenti (cioè tutti noi) per evitarla.
I grandi investitori finanziari hanno spinto le aziende dell’industria dei media a spendere fortune per produrre sempre più contenuti originali e attirare così sempre più abbonati; oggi però sembrano non considerare più, almeno per il momento, le “guerre dello streaming” un buon affare. Con quali conseguenze per tutte le media company (non solo del settore video, ma anche quello dei giornali o musicale) che hanno adottato la subscription economy come asse portante del loro modello di business?
Benvenuta, benvenuto, io sono Lelio Simi e questo è il ventottesimo numero di #MEDIASTORM una newsletter di appunti, segnalazioni, dati e approfondimenti su come la tecnologia ha trasformato/sta trasformando radicalmente le industrie dei media (e il nostro rapporto con i loro “prodotti”).
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Se guardiamo ai principali dati economici di bilancio il 2021 per Netflix è stato più che buono: i ricavi, 29,6 miliardi di dollari, sono cresciuti del 19% rispetto al 2020 e il risultato netto, 5,1 miliardi, segna un +85% rispetto all’anno precedente (ed è 9 volte quello del 2017). Inoltre, cosa non da poco, Netflix afferma che non deve più prendere in prestito denaro e il flusso di cassa sarà positivo in futuro.
Al di là delle ragioni che possono essere indicate per questo rallentamento della crescita globale degli abbonati di Netflix (significativo aumento della concorrenza, ipervalutazione dell’inevitabile aumento del numero di abbonati durante i lockdown) c’è da ricordare comunque che stiamo parlando, appunto, di crescita, +8,9% nel quarto trimestre 2021 rispetto all’anno precedente.
Certo l’aumento a livello globale delle sottoscrizioni a pagamento per Netflix è sceso sotto le due cifre da tre trimestri, mentre nel 2020 viaggiava sopra il 20%. Ma il punto è un altro: non puoi crescere a certi ritmi per sempre, prima o poi ti troverai molto vicino al punto di saturazione del tuo pubblico di riferimento, il tetto oltre il quale non puoi salire oppure, ma devi essere davvero molto bravo, dovrai accontentarti di farlo a piccolissimi passi.
Quello del numero di abbonati è un parametro semplice e immediato che ha fatto felici molti grandi investitori, e la fortuna di aziende come Netflix (e altre, soprattutto come lei nate nella Silicon Valley), ma ha drogato il mercato, posto l’attenzione su qualcosa che non racconta tutta la storia (economica) di un’azienda.
È possibile adesso svincolarsi da questa logica?
Guardando oltre il settore video, l’obbligo di continuare a garantire per il futuro una crescita degli abbonati o degli utenti catturati dai loro “giardini recintati” con percentuali a doppia cifra è la ragione per la quale Zuckerberg si è dovuto “inventare” la svolta in direzione metaverso con tanto di effetti speciali. O la ragione per cui Amazon continua ad aggiungere servizi al suo abbonamento Prime, o ancora Apple “promette” di poter piazzare il colpo appena si decida di farlo, in diverse aree di mercato legate ai media.
Nell’industria dei giornali, il New York Times ha fatto esplicito riferimento in una sua nota agli investitori ai 100 milioni di persone che parlano inglese nel mondo per dimostrare che i suoi oltre 7 milioni di abbonati solo digitali sono solo l’inizio di una crescita potenzialmente infinita. E il Washington Post, il Guardian e altre testate lo seguono in questa direzione
Eppure l’esperienza di Netflix ci dice che nel digitale molti fattori possono intervenire lungo la strada a far sì che la corsa a incamerare sempre più abbonati si complichi, trovi più resistenze del previsto.
C’è un altro passaggio nella newsletter Screentime che ha valore sottolineare, è una dichiarazione dell’analista Michael Nathanson:
“Lo streaming è un affare più difficile del cavo. Una rete televisiva può avere uno o due mesi difficili di programmazione, forse anche un anno difficile, e le persone continuano a pagare per la rete perché è venduta insieme ad altre reti che hanno avuto un buon anno. Nello streaming, le aziende sono da sole. Devono offrire ai clienti un nuovo motivo per pagare ogni mese, e questo è sia difficile che costoso”.
Probabilmente non vale solo per lo streaming video: il sogno di dominare un mercato da monopolisti (o quasi monopolisti) lanciandosi in una guerra “tutti contro tutti” con la logica chi vince si prende l’intero banco, potrebbe essere sempre più difficile da inseguire.
📝Tre storie da leggere (su media e cultura digitale)
1️⃣ Emma Bovary al tempo di Tinder
Centocinquant’anni dopo la morte di Emma, la pandemia ci ha costretti a vivere in una porzione di mondo estremamente ridotta, privati di un esterno, il mondo fuori inaccessibile come Parigi vista da Yonville. E questo, tra le altre cose, ha accelerato quel processo di digitalizzazione che era in corso già da anni. Quello che si è digitalizzato non è soltanto il consumo, o il lavoro, ma anche la forma e gli strumenti del desiderio. E i mesi di confinamento domestico lo hanno messo in luce, rendendoci più consapevoli del nostro partecipare al bovarismo. Emma, come noi, si sarebbe lasciata assorbire da Instagram, Tik Tok e Tinder fino all’esaurimento.
► Digital Bovary, un bellissimo saggio di Carolina Bandinelli e Giorgia Tolfo sul bovarismo nell’era della sua riproducibilità tecnica, su Il Tascabile (tempo lettura 14 minuti).
2️⃣ Cosa rappresenta TikTok per la musica?
TikTok è un aggeggio ancora da decifrare per intero, eppure potentissimo. Qualche dato: a settembre 2021 l’app ha raggiunto e superato il miliardo di “monthly active users” globali. Stiamo parlando di una platea grande circa tre volte quella di Spotify. L’app di Byte-Dance ha da qualche mese lanciato un importante programma di partnership discografica che va dalla consulenza digitale per artisti – ai quali vengono a volte affiancati dei professionisti per aiutarli a sfruttare al meglio il social – alla chiusura di accordi specifici con le major, nell’ottica di diventare il posto in cui andare per ascoltare nuova musica, il partner che ti serve per monetizzare meglio, la pagina dove incontrare i propri ascoltatori e dove creare con loro cose sempre nuove.
► Come diventano virali le canzoni su TikTok, su Rivista Studio Vincenzo Marino racconta come il social sta diventando inaspettatamente un "luogo" fondamentale per le grandi case discografiche per costruire il loro futuro (tempo lettura 12 minuti).
3️⃣ Gli stereotipi dei disruptor digitali
Sì, la maggior parte dei quotidiani è in declino da decenni e pochi di loro ottengono i margini del 30% prima dell’avvento di internet. Ma è un’esagerazione folle dichiarare che le istituzioni tradizionali sono zoppicanti. I prezzi di vendita non dimostrano di per sé che il giornalismo non sia così rotto come insistono i profeti di sventura, ma attestano una sorta di vitalità giornalistica. I lettori, molti dei quali disposti a pagare per ciò che consumano, vogliono ciò che questi punti vendita stanno pompando, sia che si tratti di articoli investigativi o di concise newsletter mattutine. Quindi, se l'attuale scena giornalistica è un tale fiasco, perché così tanti sfidanti si sono precipitati a competere con gli incumbent?
► Journalism Is Broken and I Alone Can Fix It! Nella sua rubrica su Politico Jack Shafer fa il punto su quanto davvero disruptive siano gli editori che promettono di aggiustare l’industria dei giornali (tempo lettura 7 minuti).
📈 Chart, chart, chart!
📺 Le prime 20 media company europee del settore audiovisivo classificate per ricavi nel 2020 (si trova al 13° posto la prima delle italiane, ovvero Mediaset, che però si è trasferita in Olanda, la Rai è al 16°). La chart è tratta dall’ultimo rapporto dell’European Audiovisual Observatory.
📺 La “total audience” in Italia secondo elaborazioni dello Studio Frasi su dati Auditel in una chart tratta dall’articolo del Sole 24 ore.
🌡️ Il barometro della fiducia nei media nel mondo, confronto tra 2021 e 2020, chart tratta da PressGazette, da notare come l’Italia resti ferma sulle proprie posizioni, con italiani perfettamente divisi a metà.
👋Prima di salutarci…
#Mediastorm: una newsletter sul nuovo ordine mondiale dei media a cura di Lelio Simi - n° 28 - 24 gennaio 2022.
→ #Mediastorm è anche il titolo del mio libro edito da Hoepli nella collana Tracce, qui la sua scheda, Lo puoi trovare in libreria oltre che sui principali store online → Hoepli, Amazon, Bookdealer, Ibs, Feltrinelli, Mondadori.
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[L’immagine del logo e nella testata di #Mediastorm è di Francesca Fincato].
Segnalo un mio pezzo su Clubhouse, un anno dopo: https://blum.vision/clubhouse-un-anno-dopo/