#Mediastorm 26 – L'anno del grande (tasso di) abbandono
Nello streaming cresce l'offerta e molti utenti cominciano ad imparare a saltare da un abbonamento all'altro. Un nuovo scenario per l'industria dei media
Il 2022 sarà “The year of the churn”, almeno secondo il gigante della consulenza Deloitte che, in un suo report pubblicato lo scorso dicembre, ipotizza che quest’anno le piattaforme di streaming dovranno fare i conti a livello globale mediamente con un tasso d’abbandono (il temutissimo churn rate, appunto) del 30%. Deloitte prevede infatti che “almeno 150 milioni di abbonamenti a pagamento ai servizi di streaming video on demand (Svod) verranno cancellati in tutto il mondo”.
D’altronde aumenta la concorrenza, sempre nuove piattaforme si lanciano nel mercato dello streaming sia video che audio, così come cresce l’espansione globale di giganti come Netflix, Disney+ (o Spotify se guardiamo oltre il settore video). L’offerta cresce quindi sia "verticalmente" nei volumi (più piattaforme, e le loro library, sul mercato) sia “orizzontalmente” (più paesi coperti dai servizi streaming in abbonamento).
Il tutto si scontra, come sappiamo bene, con due “beni” che ognuno di noi possiede in modo limitato: il nostro tempo e il denaro nel nostro portafogli.
Deloitte non prevede che tutti questi abbonamenti cancellati finiscano nel nulla, ma anzi, vengano per la maggior parte redistribuiti: “molti di coloro che annullano potrebbero abbonarsi nuovamente a un servizio che avevano lasciato in precedenza. Questi sono tutti segni di un mercato Svod sempre più competitivo e in fase di maturazione”.
Insomma una parte consistente di persone (almeno nei mercati più evoluti) sta imparando a saltare da un servizio in abbonamento ad un altro, si iscrive per un mese o due poi annulla e passa a un altro servizio per tornare, magari, dopo qualche mese – è questo uno scenario nuovo che richiede ai servizi di streaming un nuovo modo di pensare le loro strategie.
Benvenuta, benvenuto, io sono Lelio Simi e questo è il ventiseiesimo numero di #MEDIASTORM una newsletter di appunti, segnalazioni, dati e approfondimenti su come la tecnologia ha trasformato/sta trasformando radicalmente le industrie dei media (e il nostro rapporto con i loro “prodotti”).
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Il contesto
Nella subscription economy – la nuova economia degli abbonamenti digitali – il tasso di abbandono è un parametro di fondamentale importanza: mantenere nel tempo gli abbonati e convincerli a rinnovare la loro sottoscrizione mese dopo mese è altrettanto importante che acquisirne di nuovi. Soprattutto in mercati (Nord America ed Europa) dove si è molto vicini al livello di saturazione ai millemila servizi streaming offerti.
Inoltre i maggiori servizi on-demand hanno sempre fatto molto affidamento, per attrarre abbonati, nel rassicurare i potenziali nuovi utenti su quanto fosse facile disdire l’abbonamento in ogni momento con pochi semplici clic (cosa che non avviene in molte altre tipologie di abbonamento, a cominciare dai giornali, anche nelle loro versioni digitali).
Gli streamer nati come aziende tecnologiche molto prima di diventare di fatto anche delle media company hanno puntato molto sui loro algoritmi di raccomandazione per mantenere gli abbonati nel tempo: nuove produzioni (gli Original) da inserire in catalogo per attrarre nuovi abbonati, la tecnologia di raccomandazione per mantenerli nel tempo e invitarli a consumare più tempo possibile dentro la piattaforma. Sostanzialmente questa è stata la strategia ad esempio di Netflix (che ha in effetti churn rate molto bassi fino ad oggi).
Proprio Netflix assieme a Disney+, secondo gli analisti di Deloitte, soffriranno meno di questo incremento dei tassi d’abbandono. Netflix perché, in sostanza, con la sua enorme library sempre più generalista accontenta un’ampia gamma di persone che vedono il suo abbonamento come l’equivalente di quello in bundle a più canali nella vecchia TV via cavo/satellitare, ma a un prezzo decisamente più conveniente. Disney+ ha invece dalla sua l’amplissima scelta di titoli per bambini e per famiglie alla quale è difficile rinunciare. E per tutti gli altri?
Nei mercati più evoluti (Stati Uniti, in parte l’Europa) è probabile che le persone siano disposte ad aumentare il numero di abbonamenti digitali da sottoscrivere (tagliando, per compensare, quelli tradizionali “analogici” come già avviene da tempo) ma, per quanto scritto prima, i due abbonamenti di base dovrebbero rimane, nella maggior parte dei casi, Netflix e Disney+ ai quali si aggiungeranno uno o due altri. Tutti le altre piattaforme quindi si giocheranno questa parte residua (il terzo o quarto abbonamento), non il massimo come scenario per loro.
[Piccola nota: ovviamente Prime di Amazon gioca una partita a sé visto che nella sua offerta convivono diversi servizi in uno a un prezzo estremamente competitivo].
Quali alternative?
La prima è giocare sui prezzi al pubblico, proponendo pacchetti più economici come ha fatto Hulu negli Stati Uniti che ha venduto abbonamenti annuali durante il weekend del black friday al costo di 99 centesimi di dollaro al mese. La seconda è mantenere prezzi competitivi offrendo pacchetti con pubblicità (cosa che avviene in mercati come il Sud America o la Cina).
Sicuramente una terza tendenza sarà quella di ulteriori fusioni o collaborazioni tra aziende e offrire pacchetti più ampi per dare maggior valore percepito al prezzo di un abbonamento, come scrive NextTv: “È probabile anche un maggiore raggruppamento, anche tra servizi non di proprietà della stessa società. Aspettatevi più legami come gli accordi europei tra Comcast e ViacomCBS che coinvolgono Sky, Showtime e Paramount+”.
Una strategia fondamentale, anche secondo Deloitte, sarà quindi diversificare gli abbonamenti, proponendo un livello più economico magari sostenuto da pubblicità (Spotify ad esempio ne ha sperimentato uno a 99 centesimi) per attrarre abbonati e invitarli poi a passare a sottoscrizioni “premium”.
È quello che sta sperimentando ad esempio il New York Times (per fare un altro esempio fuori dal settore video) con gli abbonamenti a siti e app non legate alle news e molto più economici (come Crossword, Cooking e Wirecutter) per un po’ proprio questi siti sono stati i principali artefici dell’aumento di abbonati digitali al Times, ma nell’ultima trimestrale gli abbonamenti principali alle news sono tornati ad avere il tasso di crescita maggiore, segno che il salto da una sottoscrizione cheap a una premium al Times sta funzionando.
C’è da dire però che fino ad oggi gli streamer (Netflix su tutti) si sono distinti, e hanno (anche) per questo conquistato sempre nuove fette di mercato, grazie a un’offerta molto semplice e chiara: paghi (poco) e accedi a tutti i contenuti delle nostra immensa library. Stop. La frammentazione degli abbonamenti su più livelli rappresenta per loro una inversione di percorso.
Un’ultima considerazione
È interessante notare che nella subscription economy si è passati non tanto da un modello gratuito a un modello a pagamento, ma bensì da un modello dove da acquirenti saltuari di un singolo prodotto (acquistato quando e da chi vogliamo) passiamo a uno nel quale ci trasformiamo in utenti di un servizio fornito 24 ore al giorno 7 giorni la settimana. Se davvero la le persone impareranno, sempre più nel tempo, a saltare da un abbonamento all’altro (nello streaming video come in quello audio o nelle news), in qualche modo questo rappresenterà un compromesso tra i due modelli: acquisto un servizio quando, da chi voglio, per il tempo che decido io. Non un cambiamento da poco.
📝Tre storie da leggere (su media e disruption digitale)
1️⃣ Il perfido dilemma del giornalismo
La rivoluzione digitale non ha ancora rivelato il modo in cui i giornali faranno soldi. Ma se sono un business, allora un modo più fruttuoso per valutarli potrebbe essere quello di guardarli attraverso la lente del mercato in cui operano. Non è chiaro di chi dovrebbe essere la responsabilità di salvare queste istituzioni. Il governo? Le piattaforme che li hanno minati in primo luogo? O i consumatori che non hanno mai interamente pagato per i contenuti ma che rischiano di perdere di più se questo media se ne va? Ci vorranno seri cambiamenti politici e una collaborazione industriale senza precedenti per capovolgere la storia del crollo dei giornali.
→ Journalism’s Wicked Problem: Save What’s Lost or Invest in What’s New? Di Jessica Johnson direttrice del giornale canadese The Walrus (tempo lettura 26 minuti).
2️⃣ Netflix e la finanziarizzazione dei media
“I film non mi interessano”, diceva il personaggio interpretato da Lindsay Lohan protagonista di The Canyons di Paul Schrader: un film che non a caso iniziava con una sequela di sale cinematografiche abbandonate, vuote e in rovina. Le immagini – sosteneva Schrader implicitamente in quel film – oggi non vivono più nei cinema, ma tra gli smartphone, nei social network, nel variegato mondo della riproduzione visiva del digitale. È stato attraverso un indebitamento senza precedenti nei mercati finanziari che Netflix ha ristrutturato completamente il settore audiovisivo. Una storia che mostra il legame tra piattaforme e finanziarizzazione dell’economia. Ma in realtà non tutto è iniziato con Netflix.
→ Come Netflix e la finanza hanno cambiato il cinema, di Biagio Quattrocchi e Pietro Bianchi su Dinamo Press (tempo lettura 14 minuti).
3️⃣ Nel metaverso è già battaglia
Quella del metaverso si prepara a diventare una battaglia miliardaria simile alla corsa allo spazio Bezos-Musk. Al posto della scienza missilistica, il campo sarà definito da cuffie che giocano con la realtà, blockchain, criptovalute e quantità sbalorditive di potenza di calcolo. Non è ancora chiaro cosa intendano i miliardari pronti a investirci con il termine metaverso. Sarà un mondo futuristico divorante fatto di realtà virtuale, avatar, ville sull'oceano e altro razzmatazz online che renderà il mondo reale un luogo noioso al confronto? O sarà semplicemente una versione più ricca e coinvolgente di ciò che già esiste oggi: un modo per socializzare, lavorare, fare acquisti e giocare online anche se la vita nel mondo di tutti i giorni va avanti normalmente?
→ The billionaire battle for the metaverse, fa il punto su quelli che potrebbero essere gli scenari l’Economist (tempo lettura 6 minuti).
👋Prima di salutarci…
Fare uno screenshot 39 anni fa… (dall’inesauribile account Twitter di Jon Erlichman).
#Mediastorm: una newsletter sul nuovo ordine mondiale dei media a cura di Lelio Simi - n° 26 - 09 gennaio 2022.
→ #Mediastorm è anche il titolo del mio libro edito da Hoepli nella collana Tracce, qui la sua scheda, Lo puoi trovare in libreria oltre che sui principali store online → Hoepli, Amazon, Bookdealer, Ibs, Feltrinelli, Mondadori.
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[L’immagine del logo e nella testata di #Mediastorm è di Francesca Fincato].