#Mediastorm 10 – Spotify e l’abbonamento a 0.99 $, apre una nuova fase della subscription economy?
Spotify sta sperimentando, (su gruppi di utenti random) un abbonamento a pagamento alternativo a quello “premium”, ad un prezzo decisamente molto più basso rispetto ai canonici 9.90 dollari/euro (negli Stati Uniti secondo quanto raccolto da The Verge, che ha riportato per primo la notizia, l'offerta è proposta a soli 0.90 dollari).
Cosa ha di diverso questo abbonamento da quello molto più caro? Ha ancora interruzioni pubblicitarie ma, però, offre feature possibili, fino ad oggi, solo con l’opzione principale a pagamento (ad esempio non impone alcun limite al numero di tracce che puoi saltare).
È un esperimento, e come tale va preso, «Stiamo attualmente conducendo un test per un piano di abbonamento supportato da pubblicità su un numero limitato di nostri utenti» hanno detto dall’azienda, ma è molto interessante che oggi si inizi a pensare di modulare molto di più di quanto fatto fino ad adesso le offerte per abbonamenti nel digitale; in qualche modo ci dice che qualcosa di importante sul futuro delle guerre dello streaming.
Spotify non è affatto l’unica azienda – tra i protagonisti della subscription economy – ad aver fatto recentemente esperimenti in questa direzione. Anche YouTube sta sperimentando qualcosa di simile, così come Warner Media su HBO Max ha già sperimentato, ad inizio anno, un abbonamento più economico sostenuto da pubblicità, mentre su Disney+ è stata sperimentata l’opzione che permette ai soli abbonati di acquistare singoli film (ad esempio recentemente è successo con Black Widow in uscita anche nelle sale, cosa che ha fatto infuriare Scarlett Johansson, come ampiamente riportato dai giornali di mezzo mondo).
Fino ad oggi gli streamer si sono distinti, e hanno (anche) per questo conquistato sempre nuove fette di mercato, grazie a un’offerta molto semplice e chiara: paghi (poco) e accedi a tutti i contenuti delle nostra immensa library. Stop. Qualcuno addirittura senza alcun tipo di pubblicità (come Netflix che a dire il vero propone oggi tre livelli di abbonamento basati però solo su qualità risoluzione video). La TV via cavo e satellitare a pagamento invece, in modo più complesso, ci aveva abituato a singoli pacchetti per sport, calcio, cinema, programmi televisivi o intrattenimento in generale, da comprare singoli o da combinare in diverse altre opzioni, ovviamente con prezzi diversi.
È decisamente presto per dire se di sta aprendo una nuova fase all’interno della nuova economia degli abbonamenti digitali, ma è lecito chiedersi, come ha fatto la giornalista del New York Times, Shira Ovide: nella subscription economy sta per finire l’era del all-you-eating?
Benvenuta, benvenuto io sono Lelio Simi e questo è il decimo numero di #MEDIASTORM una newsletter di appunti, segnalazioni, dati e approfondimenti su come la tecnologia ha trasformato/sta trasformando radicalmente le industrie dei media (e il nostro rapporto con i loro “prodotti”).
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Per le aziende tecnologiche come Spotify, Netflix, Google/YouTube cresciute nel mito della “Radical simplification of everything” la semplicità è sempre un plus, anche quando si tratta di proporre un abbonamento ai propri clienti; ma nel momento in cui, anche nello streaming, la concorrenza cresce continuamente, la guerra si gioca, piaccia o meno, anche sul pricing e nel differenziare il pacchetto di offerte .
E però giocare al ribasso, può andare bene all’inizio quando si debutta in un nuovo mercato (molto competitivo appunto) come lo streaming, per creare una prima base di utenti ma, poi, quello stesso alto livello di competizione esige sempre maggiori investimenti nelle tecnologie e nei contenuti. Quindi cosa fare se non cercare dei compromessi dentro quella logica dell’ estremamente semplice ed economico che ha fatto, fino ad oggi, la fortuna dei primi streamer?
C’è da tenere presente che i prezzi degli abbonamenti premium, tutti più o meno intorno ai 10 dollari/euro, sono ancora decisamente convenienti rispetto ai canali TV a pagamento via cavo o satellitare, e rappresentano all’incirca il prezzo di un singolo CD (da scaricare in uno store online) o di un biglietto del cinema, pur offrendo accesso illimitato a un catalogo pressoché infinito. Allora dove sta il problema?
Il problema sta nel fatto che tutta questa, oggettiva, economicità per gli utenti ha funzionato molto bene nel momento in cui le piattaforme presenti sul mercato erano molto poche, ma oggi tutti puntano sullo streaming e sulla subscription economy, le piattaforme si moltiplicano a vista d’occhio, tutte in guerra una con l’altra, tutte in cerca di offrire più contenuti in esclusiva che le altre non hanno, ecco che tutta quella economicità per gli utenti va perdendo.
Facciamo due conti, abbonarsi a un paio di piattaforme video, una di musica/audio, un paio di testate in formato digitale (e già, perché anche i siti dei principali giornali sono diventate ormai dei “giardini recitanti” accessibili praticamente solo a pagamento), sostenere un paio di newsletter su Substack o Revue, oppure un sito come il Guardian o Il Post (accessibili a tutti, ma con membership) o ancora in alternativa qualche “creatore” su Patreon, ecco che siamo intorno ai 50/60 euro al mese che fanno 600/700 euro l’anno. Senza contare tutti gli altri abbonamenti digitali a servizi come cloud. Negli Stati Uniti la spesa media in abbonamenti digitali ha già praticamente ha raggiunto quella dei “vecchi” abbonamenti tradizionali.
Così alla fine quel salto da 0 a 10 (euro , dollari fate voi a secondo di dove ci troviamo) fino a ieri ancora da compiere senza tanti pensieri, oggi diventa un po’ più difficile, soprattutto in un periodo post-covid –che poi del tutto post non è – ma comunque di parziale ritorno alla vecchia routine (cinema, ristoranti, vacanze).
Un abbonamento decisamente più economico, in teoria, sembra un buon compromesso: invoglia nuovi utenti a fare un primo passo verso l’abbonamento premium più costoso, oppure può convincere chi è già abbonato a non disdire l’abbonamento e rimanere comunque agganciato alla piattaforma (c’è chi sta già imparando a saltare da una piattaforma all’altra ciclicamente visto comunque la grande quantità di contenuti originali proposti).
Un’ultima questione: su cosa puntare per diversificare le offerte e i prezzi? Spotify, per quello che ne sappiamo ad oggi, punta su una maggiore usabilità mantenendo lo stesso livello di interruzioni pubblicitarie, altri come HBO Max introducono le interruzioni pubblicitarie mantenendo la medesima usabilità.
Personalmente ho dei dubbi, credo che una motivazione forte (probabilmente la più forte) per la maggior parte delle persone nel decidere di abbonarsi sia liberarsi della pubblicità, ricordarsi per questo la massima “la pubblicità è quella cosa che le persone sono disposte a pagare per non trovarsela tra i piedi” (a Google dimostrano di ricordarsela, quella massima, visto che la nuova offerta “economica” di YouTube è senza vantaggi di usabilità premium ma, di contro, toglie dai piedi i noiosissimi spot)
Puntare comunque su feature premium e usabilità per diversificare abbonamenti? Anche qui ci sono dei precedenti poco rassicuranti, Tidal, la piattaforma di streaming musicale lanciata dalla pop star Jay-Z, che punta tutto su alta qualità audio e maggiore etica nel trattamento economico degli artisti, non è stata quel successo travolgente (per usare un eufemismo) che gli investitori si aspettavano.
Gli streamer quindi sono obbligati a sperimentare anche in questo campo, ma devono risolvere una formula che presenta davvero molte incognite, d’altronde la subscription economy come la conosciamo oggi è un “fenomeno” ancora molto giovane, di sicuro per come si sta sviluppando, in assenza di alcun tipo di correttivo, rischia di rispondere sempre meno alle esigenze delle persone, non semplificando ma, anzi, alla fine complicando la loro (nostra) vita.
#Mediastorm: una newsletter sul nuovo ordine mondiale dei media a cura di Lelio Simi - n° 10 - 08 agosto 2021.
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[L’immagine del logo e nella testata di #Mediastorm è di Francesca Fincato].