#Mediastorm 09 - Cosa dobbiamo aspettarci dall’industria della pubblicità nei prossimi anni?
«Cercare di capire i media senza capire la pubblicità e il marketing, è come cercare di capire l'industria automobilistica senza considerare i costi del carburante» ha scritto Ken Auletta nel suo “Frenemies - the epic disruption of advertising industry”.
Il libro non è stato ancora tradotto in Italiano, ed è un peccato, forse ha nuociuto il fatto di aver dedicato – peraltro giustamente – molte pagine a Martin Sorrell, l’allora monarca assoluto della WPP la più grande holding pubblicitaria al mondo; il fatto è che poco dopo l’uscita del libro, sir Martin, è stato fatto fuori dalla sua stessa creatura e qualcuno deve aver pensato, sbagliando a mio avviso, che il libro fosse improvvisamente invecchiato.
In realtà Sorrell dopo la batosta si è rimesso in piedi e ha fondato una sua società di pubblicità digitale, tornando a cavallo e, soprattutto, rimanendo una delle poche persone veramente interessanti da ascoltare quando si parla del prossimo futuro dell’industria della pubblicità.
L’altra persona altrettanto interessante è (e arrivo al punto dopo questa lunga premessa) Marc Pritchard se non altro perché ricopre il ruolo di chief brand officer a Procter & Gamble, ovvero quello che ha i cordoni della borsa, oltre 7 miliardi di dollari di budget nel 2020, del più grande investitore pubblicitario al mondo (anche se oggi quel primato deve giocarselo con Amazon).
A fine giugno scorso su Bloomberg è uscita una lunga intervista a Pritchard dal titolo esplicativo P&G Brand Czar Pritchard Reveals Blueprint for the Next $10 Billion in Ads dove il dirigente elenca alcuni punti fondamentali della loro prossime strategie in fatto di advertising.
Provo a evidenziare alcuni punti che mi sembrano particolarmente interessanti e a mettere insieme qualche mia considerazione.
Benvenuta, benvenuto io sono Lelio Simi e questo è il nono numero di #MEDIASTORM una newsletter di appunti, segnalazioni, dati e approfondimenti su come la tecnologia ha trasformato/sta trasformando radicalmente le industrie dei media (e il nostro rapporto con i loro “prodotti”).
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«Stiamo lavorando da tempo per reinventare la costruzione del marchio per allontanarci dal marketing di massa molto tradizionale con molti sprechi, per raggiungere ancora la massa, ma con una precisione molto maggiore».
È tutto perfettamente logico, tra l’altro questo è un concetto che Pritchard esprimeva anche ad inizio del 2020 prima della pandemia in una bella intervista al Sole 24 Ore (firmata da Giampaolo Colletti). Eppure fa un certo effetto sentire parlare di “meno sprechi” o “maggiore precisione” dopo un intero decennio, l’ultimo trascorso, che ha visto l’incredibile crescita di Facebook e Google, che oggi pesano da soli circa il 40% su tutti gli investimenti in advertising, grazie proprio alla loro promessa di precisione millimetrica e assenza di qualsiasi spreco di denaro: il loro mantra in questi anni è stato “paghi solo per quello che funziona” o “il messaggio giusto consegnato, alle persone giuste, al momento giusto” in opposizione all’opacità endemica della vecchia industria tradizionale dell’advertising
Siamo nuovamente al punto di partenza? Certo Pritchard guarda al settore nella sua interezza, occupato ancora per una larga fetta dalla TV lineare dove P&G investe ancora molto, ma resta il fatto che la verifica sulla reale efficacia e precisione promessa dalle big tech dell’advertising resta oggi un tema, un nodo da sciogliere, fondamentale; che implica, dall’altra parte, quello sulla tutela della privacy delle persone. Soprattutto se, come afferma il top manager di P&G:
«la programmatic sarà il futuro poiché le cose continueranno a diventare più digitali perché ciò ti consente di trovare il pubblico giusto per indirizzare l'annuncio giusto al momento giusto al prezzo giusto e non farlo con una frequenza eccessiva».
«Coinvolgere direttamente i consumatori».
Resta il fatto che i brand, i grandi investitori pubblicitari, stanno richiedendo sempre più dati e hanno bisogno di possederli “in proprio”. L’esempio che fa Pritchard è interessante: un’app sviluppata per Pampers con consigli utili per i neo-genitori.
«Una volta scaricata l'app, iniziamo a ottenere informazioni. Se vengono accettate le condizioni di cessione dati (opt-in) possiamo poi apprendere di più su di loro».
C’è ovviamente il tema privacy, da maneggiare con estrema cura, ma se le informazioni sono realmente utili, e c’è totale trasparenza, è una strada interessante.
A tale proposito per quanto riguarda il content marketing una piccola digressione: essere (realmente) utili alle persone, è sempre il miglior modo per ottenere la loro fiducia. È molto banale, lo so, ma non fa male ricordarlo: va bene lo storytelling, il “viaggio dell’eroe”, la cronaca dettagliata di tutte le cose interessantissime che avvengono in azienda (della quale immagino i lettori siano in trepidante attesa), ma spesso nel creare un rapporto diretto con le persone (non è questo oggi il vero obiettivo della comunicazione corporate?) ci si dimentica che più che “emozionare” è necessario essere utili, magari mettendo le proprie competenze al servizio dei potenziali clienti.
«Uno dei flagelli del settore è l'eccessiva frequenza degli annunci, uno spreco e non una buona esperienza per i consumatori».
Direi che oggi la crisi dello spot da 30 secondi non è tanto la crisi di un format da mandare in pensione, ma da ripensare e ricalibrare. TikTok, a suo modo, lo sta rilanciando (quello da 30 e 60 secondi) ma – e torniamo al tema dei dati e della profilazione sul quale ruota tutta la pubblicità oggi – con la capacità di connettersi a internet, anche attraverso gli Smart TV nella quale l’app cinese è sbarcata a fine 2000.
Però la vecchia TV lineare, con tutti i suoi limiti, è ancora un potente mezzo per raggiungere grandi masse di persone, se devi lanciare un nuovo prodotto nella prossima stagione la TV tradizionale resta un mezzo (ancora) irrinunciabile. Il punto è che l’invadenza dello spot televisivo per il pubblico di oggi ha ormai superato il limite della sopportazione; i broadcaster lo sanno bene ma non riescono davvero a ridurne il volume, ed è un grosso problema per loro.
La corsa sfrenata per aumentare gli investimenti in nuove produzioni da parte degli streamers (da Netflix a HBO Max) presumibilmente attirerà sempre nuovi spettatori verso quelle piattaforme e visto che il tempo da dedicare alla visione di programmi televisivi è limitato per ognuno di noi, la TV tradizionale supportata da pubblicità continuerà a soffrire perdite di spettatori, dicono molti analisti.
O come sostiene Pritchard:
Tuttavia quello che stiamo vedendo è che gli ascolti continuano a diminuire e c'è un passaggio maggiore allo streaming, al digitale. È solo questione di tempo prima che inizi ad arrivare a un punto in cui saremo in grado di automatizzare molte di queste cose.
«Stiamo assistendo a uno spostamento verso i giochi. Il gioco sta diventando una piattaforma più rilevante per molti dei nostri marchi».
Quello dei videogiochi è uno dei settori in più rapida crescita, – al Wall Street Journal facevano notare qualche settimana fa che la spesa globale in questo settore raggiungerà i 175,8 miliardi di dollari quest'anno e supererà i 200 miliardi di dollari entro il 2023 – quindi qualcosa che, davvero, nessuno può permettersi di non considerare, in qualche modo, tra i propri mezzi.
Netflix ci sta facendo più di un pensiero, ma per agli advertiser cosa può offrire? Un modo, anche questo, per sganciarsi dal vecchio spot televisivo, accedere a un vasto pubblico connesso alle Rete (e in particolare su mobile, quindi stiamo parlando ancora di dati personali) e con un livello di coinvolgimento molto elevato. Come? Ad esempio offrendo ai gamer vantaggi (potenziamento, salto di livello) in cambio di attenzione verso un proprio marchio.
📉 #Chart della settimana
Le big tech made in Usa da Google/Alphabet a Facebook, da Netflix a Twitter sono da tempo aziende globalizzate diffuse in (quasi) tutto il mondo, ma quanto lo sono i loro ricavi? Visto che in questi giorni sono stati pubblicati un po’ di bilanci relativi al secondo trimestre del 2021 da parte delle maggiori aziende tecnologiche americane mi è sembrato interessante, allacciandomi in parte con quanto scritto lo scorso numero per Netflix, di fare un grafico relativo al confronto tra il peso percentuale sui ricavi generati dagli Stati Uniti (e Canada che spesso viene incluso nella voce Nord America) e il resto del mondo.
Qualche precisazione: Apple non fornisce nel bilancio il dato dei ricavi relativo ai soli Stati Uniti ma indica con la voce “Americas” tutto il continente, il dato è relativo al trimestre chiuso a giugno, come gli altri, ma Apple lo indica come Q3 adottando anno fiscale che si chiude a settembre; così come Microsoft la cui fonte del dato che ho adottato e il sito daze.info.
Per quanto riguarda Amazon il dato relativo ai ricavi da net sales è comprensivo di AWS (Amazon Web Service) che l’azienda tratta come una voce a sé stante e non divisa per aree geografiche.
#Mediastorm: una newsletter sul nuovo ordine mondiale dei media a cura di Lelio Simi - n° 09 - 01 agosto 2021.
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[L’immagine del logo e nella testata di #Mediastorm è di Francesca Fincato].