#Mediastorm 03 -Tre note su Netflix, l’ecommerce e le guerre dello streaming
In questo numero anche ricavi globali delle "top 5" della pubblicità e un'infografica (ancora) su industria italiana dei quotidiani
Tre cose su decisione di Netflix di lanciarsi nell’e-commerce
Dopo l’enorme successo globale di “La regina degli scacchi” è stato fatto notare come, quel successo, avesse trainato nelle settimane immediatamente successive alla data di pubblicazione della serie TV su Netflix, un aumento fuori scala di vendite di scacchiere e libri dedicati agli scacchi (nei soli Stati Uniti +87% e +603% rispettivamente ha riportato Variety).
Tutto molto bello, ma in in quello strabiliante giro di soldi innescato dalla serie TV, Netflix non ha guadagnato un centesimo, un piccolo particolare che certo al pragmatismo elevato all'ennesima potenza di Reed Hastings e soci non deve essere sfuggito.
Benvenuta, benvenuto io sono Lelio Simi e questo è il terzo numero di #MEDIASTORM una newsletter di appunti, segnalazioni, dati e approfondimenti su come la tecnologia ha trasformato/sta trasformando radicalmente le industrie dei media (e il nostro rapporto con i loro “prodotti”).
In questo numero:
Tre note su Netflix, l’e-commerce e le guerre dello streaming.
Il nuovo ordine mondiale dei ricavi pubblicitari.
Rapporto tra vendita copie, readership e audience web di sette quotidiani nazionali italiani (Corsera, Reubblica, La Stampa, Il Sole, Il Giornale, Libero e il Fatto Quotidiano).
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Così lo scorso 10 giugno l’azienda ha annunciato il lancio di Netflix.shop, per il momento solo negli Stati Uniti: «Ci piace quando le grandi storie trascendono gli schermi e diventano parte della vita delle persone» ha dichiarato soddisfatto Josh Simon, VP Consumer Products, assunto nel 2020 dopo aver lavorato per anni con lo stesso ruolo alla Nike.
A differenza di Disney, oggi con la sua piattaforma Disney+ il suo principale concorrente nella guerra dello streaming , i cui ricavi dipendono da più voci (non ultimi quelli relativi ai Parchi a tema, eventi, merchandising e il direct-to-consumer) Netflix ha come uniche entrate economiche quelle derivanti dai suoi abbonati e, da sempre, si rifiuta di adottare sulla propria piattaforma una qualsiasi forma di pubblicità. La scelta di buttarsi nell’e-commerce per Netflix sembra più che giustificata, ma non tutti la giudicano la migliore. Perché?
La capacità di creare non solo titoli di successo ma anche film e serie tv che sappiano creare un franchise è una sfida difficile. No, la seconda cosa non è affatto conseguente della prima, un titolo di successo non è affatto detto sia adatto a vendere magliette, action figure o altro. Per carità Netflix ha risorse economiche per assumere i migliori esperti in materia (lo sta già facendo), la partnership in questa operazione con Shopify sembra più che promettente, ma costruire da zero una “cultura” nel progettare film di successo capaci di convertire quel successo anche in sequel e spin-off, oltre che in un giro di vendite di oggettistica, ha bisogno di molto tempo, pensate a Star Wars, oggi sotto l’ombrello proprio del “nemico” Disney, a quanto tempo ci è voluto a costruire una macchina da soldi simile. E Netflix invece produce Originals soltanto dal 2013.
Un altro modo fondamentale per generare vendite di oggettistica e prodotti vari sono i contenuti per bambini a cominciare dai cartoni animati, e in questo campo su chi puntereste tra Disney e Netflix?
Come ha fatto notare Lucas Shaw nella sua newsletter “Screentime” di Bloomberg:
«Netflix rilascia ogni episodio del suo spettacolo contemporaneamente e rilascia più spettacoli di quanti chiunque possa mai guardare. Il suo modello di business incoraggia le persone a essere ossessionate da uno spettacolo per una settimana o due, per poi passare a quello successivo.
I franchise di intrattenimento più preziosi sono costruiti attorno a properties che vanno in onda in TV ogni giorno o serie di film in più parti (spesso basate su libri o fumetti). La vendita di giocattoli richiede un impegno costante. Gli spettacoli per bambini a cadenza quotidiana sono un ottimo modo per ricordare a un bambino che vuole un peluche. (Quando Nickelodeon ha spostato la programmazione di uno spettacolo da quotidiana a solo il sabato, le vendite sono diminuite dell'80%, secondo Jeremy Padawer, un dirigente di Jazwares.)».
Lasciando le “guerre dello streaming”, un punto più in generale: le big tech occidentali hanno, per la maggior parte, un’unica (o quasi unica) voce di ricavo: Facebook e Google dipendono quasi totalmente dalle revenue da pubblicità, Spotify da abbonati per l’80% e solo in modo residuo da pubblicità e Netflix, come sappiamo, solo e unicamente dagli abbonati (potrei continuare con molte altre aziende tecnologiche occidentali). Per quanto dominanti possano essere queste aziende nel loro settore, alla lunga, non essere capaci di diversificare è un (grosso) limite; soprattutto con l’ascesa di aziende tecnologiche provenienti dall’Estremo Oriente che, invece, hanno un’architettura dei ricavi molto diversificata.
Il punto è che diversificare –cioè pensarsi anche qualcos’altro rispetto a quello che hai fatto fino adesso, e lo hai fatto molto bene visto che ti ha portato a dominare un mercato– è molto difficile per aziende come Netflix (o Facebook, o Spotify o Google) nonostante tutti i loro sforzi. Soprattutto se il loro dominio si basa su l’aver puntato, prima di tutti gli altri, su tecnologie e mercati emergenti (lo streaming video, nel caso di Netflix), mentre la diversificazione, come accade anche in questo caso, viene cercata in tecnologie e mercati dove arrivi per buon ultimo.
Ricavi pubblicitari globali sempre più concentrati in poche aziende
Il peso percentuale delle prime cinque aziende al mondo per ricavi da pubblicità sul totale delle entrate di tutta l’industria pubblicitaria tra 2016 e 2020 è passato dal 26% al 46%. È uno dei dati che si leggono nell’aggiornamento di metà anno (giugno 2021) del report “This Year, Next Year” di GroupM il centro media più grande al mondo (asse portante di WPP).
Una crescita che segna una concentrazione sempre più evidente in questo comparto, che risulta ancora più accentuata se andiamo a vedere più indietro nel tempo al 2010 quando i 70 miliardi di dollari di ricavi pubblicitari aggregati delle top 5 rappresentavano “solo” il 17%; allora le top 5 erano Google, Viacom-Cbs, News Corp-Fox, Comcast (la TLC proprietaria tra l’altro di NBCUniversal e, dal 2018, di Sky) e Disney, e come si può notare, erano tutte aziende made in Usa, ma le cose cambiano nell’era della globalizzazione.
Nel 2016 – secondo queste stime di GroupM – rispetto al 2010 nelle top 5 è entrata Facebook ed è uscito l’impero di Murdoch (News Corp-Fox) e l’aggregato, ancora tutto americano, sommava revenue pubblicitarie per 138 miliardi di dollari; nel tempo però sono entrate le big tech cinesi, prima Alibaba (nel 2017) e poi ByteDance, casa madre dell'app TikTok (nel 2019) che assieme a Google, Facebook e Amazon nel 2020 hanno sommato tutte assieme ricavi da advertising per 295,5 miliardi di dollari, ovvero un incremento del 114% rispetto a quanto facessero le allora top 5 nel 2016, l’intero comparto invece, secondo queste stime, è cresciuto nel medesimo periodo solo del 23%. Crescita a due velocità che, appunto, ci dice quanto i grandi sembra siano destinati a diventare ancora più grandi, mangiandosi le fette più grandi della ricca torta pubblicitaria.
Piccola nota a margine: avete notato?, Nel 2016 nelle top 5 c’erano due aziende “pure digital” e tre “tradizionali” nel 2020, solo quattro anni dopo, la cinquina è composta solo da aziende che operano nel digitale.
Il rapporto tra copie vendute, readership e audience web dei principali quotidiani italiani
Dopo i due approfondimenti su industria italiana dei quotidiani (qui la prima parte, qui la seconda) mi prendo una pausa prima di pubblicare la terza parte dove affronterò il tema di come si è evoluta, e con quali risultati economici, l’audience web e digitale dei giornali italiani. Qui comunque un piccola anticipazione: un’infografica dove ho provato a mettere a confronto copie vendute, readership sia carta che replica digitale e audience web (compreso traffico da mobile) di otto quotidiani italiani tra 2016 e 2020.
Il grafico è diviso in due dalla linea che definisce il rapporto “1 a 1” tra i lettori del sito internet del giornale e il suo lettorato nel giorno medio, precisando che i dati Audiweb e Audipress non sono perfettamente sovrapponibili per metodologie (recentemente si è parlato di una loro fusione poi saltata). Il cerchio definisce le copie vendute (carta + digitale) certificate da Ads e il suo diametro è, ovviamente, direttamente proporzionale al loro numero.
Come si legge l’infografica: lo spostamento verso l’alto segna l’incremento dell’audience web ma quello verso sinistra una diminuzione dei lettori delle copie di carta e digitali, mentre per molti è evidente la riduzione delle copie vendute (il diametro dei cerchi che diminuisce). Da notare come Il Fatto Quotidiano, l’unico del lotto, sia cresciuto nel periodo preso in considerazione sia per copie media vendute (carta + digitale) +8%, readership +26% e audience web di quasi sei volte.
Appuntamenti
Mercoledì 23 giugno sono (online) qui a parlare dei temi legati al mio libro #Mediastorm, se ne avete voglia e tempo ecco il link per registrarsi (l’appuntamento è gratuito).
Lo scorso 9 giugno invece ero a chiacchierare sempre sui temi legati #Mediastorm - il nuovo ordine mondiale dei media, grazie alla bella iniziativa editoriale “Strocature”, qui il video dell’incontro su YouTube.
#Mediastorm: una newsletter sul nuovo ordine mondiale dei media a cura di Lelio Simi - n° 03 - 19 giugno 2021.
→ #Mediastorm è anche il titolo del mio libro edito da Hoepli nella collana Tracce, qui trovi la sua scheda, lo puoi trovare anche su principali store online Hoepli, Amazon, Bookdealer, Ibs, Feltrinelli.
→ Se sei interessato a seguirmi qui il mio account Twitter e su Medium, qui invece il mio portfolio. Per contatti professionali qui mio profilo Linkedin.
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→ L’immagine del logo e nella testata di #Mediastorm è di Francesca Fincato.