#Mediastorm 87– La professione "spacchettata"
Giornali, content creator indipendenti e la "disaggregazione" della professione giornalistica.
“L’onda dei content creator supera i media tradizionali” (Content creators surge past legacy media) il Washington Post ha titolato così un lungo reportage pubblicato a fine ottobre dove viene raccontato come “milioni di creatori indipendenti stanno rimodellando il modo nel quale le persone ricevono le notizie”.
Taylor Lorenz, che ha firmato l’inchiesta, ha raccolto molte delle storie di questi nuovi protagonisti dell’informazione come, ad esempio, Ameer Al-Khatahtbeh che dopo la laurea in giornalismo ha deciso non tanto di lavorare in una redazione tradizionale ma, invece, di costruire il proprio marchio di notizie digitali rivolto alla comunità musulmana, raggiungendo nei suoi account di TikTok e Instagram “un pubblico maggiore di quello medio giornaliero di 1,1 milioni di persone di Fox News”.
Oppure la storia di John Harris, un giornalista che ha deciso di lanciare il proprio canale YouTube dopo aver lasciato il suo lavoro a Vox (una delle testate più rappresentative della ex-nuova onda digitale delle notizie); il canale di Harris oggi conta più di 4 milioni di follower “coprendo notizie globali e conflitti geopolitici conducendo indagini approfondite su temi come la Chiesa dei mormoni e il movimento dei terrapiattisti”. Secondo stime della società di analisi Social Blade — precisa ancora il Washington Post— le sue entrate da pubblicità superano i 900 mila dollari l'anno.
Nel frattempo Vice Media ha dichiarato bancarotta e BuzzFeed dopo aver dissolto la propria redazione giornalistica continua a perdere pezzi.
L’accostamento mi viene naturale perché, per quasi un decennio, le due testate (assieme a una manciata di altre all digital) hanno personificato il “nuovo che avanza” soprattutto grazie alla loro promessa di conquistare in massa i lettori più giovani, per merito dei loro nuovi format dallo stile irriverente e un linguaggio decisamente meno paludato dei legacy media.
In molti ci hanno creduto e investito denaro, non ultimi una vecchia volpe come Murdoch (che nel 2013 ha sborsato 70 milioni di dollari per acquisirne il 5% di Vice Media, e piazzato il figlio James nel board della società) o la Warner (tramite HBO, la rete TV sinonimo di qualità ed eccellenza) che con Vice stipulò una lunga collaborazione.
Tutti convinti, allora, che quello fosse il modo migliore per conquistare i lettori del futuro — i millennial — che loro (gli editori tradizionali) vedevano solo con il binocolo mentre i “ragazzi terribili” delle notizie, invece, sembrava proprio avessero capito tutto di quella generazione.
Ma quando il futuro è cominciato ad arrivare davvero (e i millennial ad avvicinarsi alla mezza età) quei lettori, nessuno li ha visti.
Oggi il Reuters Institute dichiara nel suo ultimo Digital News Report che i più giovani — la Gen-Z in particolare — è attratta da “formati di notizie più accessibili, informali e divertenti, spesso forniti da influencer invece che da giornalisti”. Una definizione che però, pressoché identica, abbiamo sentito essere il “format perfetto” per il lettore del futuro già una decina di anni fa; davvero allora è tutta e solo una questione di “format”?
Le considerazioni che si possono fare sono molte (il reportage del Washington Post, giustamente, si sofferma molto sulla qualità delle notizie e sulla “dilagante diffusione della disinformazione”) ma personalmente qui mi viene da farne principalmente due:
Nell’era dello “spacchettamento di qualsiasi cosa” ad essere disaggregato non è stato solo il giornale (in tanti singoli articoli che viaggiano indipendentemente dal loro contesto originario) ma anche la redazione, da una comunità professionale organizzata che assieme progetta e realizza il giornale allo “spacchettamento” in tanti singoli giornalisti indipendenti (“certificati” o meno da un tesserino), ognuno alla ricerca del proprio spazio personale, della propria porzione di attenzione da monetizzare.
L’idea di andare là dove sono i lettori più giovani (i social o le app del momento), per poi trasformarli magicamente in lettori del proprio sito web, del giornale di carta o spettatori del proprio tiggì è, nella maggior parte dei casi, illusoria e destinata a fallire.
Come precisa ancora il Reuters Institute:
"Non ci sono elementi ragionevoli per aspettarsi che i nati negli anni Duemila arrivino improvvisamente a preferire i siti web vecchio stile, né tantomeno la TV o la stampa, semplicemente perché col passare del tempo crescono d’età”.
Benvenuta, benvenuto, io sono Lelio Simi e questo è l’ottantasettesimo numero di #Mediastorm una newsletter di appunti, storie, segnalazioni, dati e approfondimenti per cercare di capire come la tecnologia ha trasformato/sta trasformando/trasformerà l’economia delle industrie dei media e il nostro rapporto con i loro “prodotti”. Se non lo sei già, puoi iscriverti da qui:
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🟠 Lo “spacchettamento” della professione
Il ciclo digitale di aggregazione/disaggregazione — che in questi anni ha investito qualsiasi settore — ha coinvolto anche, come sappiamo bene, quello delle notizie. Non solo il formato “monoblocco” del giornale frammentato in singoli articoli consegnati, pezzo per pezzo, via social, ma anche il luogo di lavoro: la redazione sostituita da tanti singoli (o piccoli gruppi di) giornalisti/scrittori che lavorano da casa, soprattutto dopo la pandemia con l’uso intensivo del telelavoro.
La crisi economica dell’industria dei giornali e i conseguenti pesanti tagli al costo del lavoro hanno obbligato i giornalisti a “pensarsi” anche (e oggi, soprattutto) fuori dalle redazioni tradizionali, mentre blog e social media hanno ulteriormente spinto i giornalisti a diventare “brand di sé stessi”.
Con l’ascesa di definitiva di giganti come YouTube, TikTok o piattaforme come Substack o Patreon che offrono ai creatori di contenuti non solo visibilità ma, più concretamente, la possibilità di condividere con loro una frazione dei loro ricavi, molti oggi possono vedere in queste piattaforme l’unica vera alternativa nel continuare a fare informazione con un ritorno economico (quanto in maniera strutturata ancora tutto da verificare).
In questo modo però:
si decide di legarsi a doppio filo (economicamente e non solo) con una piattaforma con la quale non si ha il minimo potere di influire né sulle strategie né sulle policy, quindi con tutti le potenziali problematiche che ne possono scaturire una volta che queste piattaforme decidono unilateralmente di cambiarle (BuzzFeed/Facebook ha insegnato qualcosa?).
Ci si pensa sempre più come singoli giornalisti indipendenti (dipendendo però molto, come detto, dalle decisioni delle big tech proprietarie delle piattaforme che ci “ospitano”), eppure un crescente numero di giornalisti nel mondo oggi ha sempre più bisogno di infrastrutture capaci di supportarli e tutelarli, di connetterli per attivare progetti editoriali e occasioni di lavoro, perché le imprese editoriali e gli attuali organismi professionali sono sempre meno capaci di farlo.
Ma proprio per tutto questo bisognerà, guardare al digitale non tanto come a un modo per trasformarci tutti in (potenziali) giornalisti one-man-band ognuno alla ricerca del suo posticino al sole, ma soprattutto come a un luogo dove aggregare professionalità, elaborare idee, sviluppare e strutturare collaborazioni.
🟠 La “conversione” impossibile?
Dove si “costruiscono” i lettori del futuro dei giornali? Per un po’ di tempo non sono mancati editori che si preoccupavano di “allevare” direttamente i lettori del futuro; il principale quotidiano italiano, ad esempio, con il Corriere dei Piccoli/dei Ragazzi oltre che a pubblicare fumetti e racconti di avventura sentiva la necessità di raccontare ai ragazzi anche tematiche più complesse ed eventi drammatici dell’attualità (per capire leggete la risposta del direttore dell’ottobre 1973 del Corrierino a due genitori scandalizzati dal fatto che il giornale avesse raccontato ai loro figli il colpo di stato in Cile).
Ma a quel tempo un ragazzo conquistato alla lettura e all’approfondimento delle notizie aveva di fronte un percorso definito, praticamente obbligato, verso il giornale di carta, o la televisione, per mancanza di alternative. Poi lo scenario è completamente cambiato offrendo “percorsi” molto più diversificati.
Gli editori si sono concentrati sempre più nel cercare di trattenere il loro lettore “forte” (perlopiù over 60) costruendo il giornale, di riflesso anche quello sul web, attorno a lui (o all’idea che si è avuto di quel lettore).
Se poi qualcuno dimostrava di poter conquistare i lettori più giovani (o prometteva di) si cercava di replicarne alcuni aspetti, soprattutto nella presenza sui social degli account ufficiali: e via a una profusione di video divertenti, listicle e sciocchezze varie buone per fare qualche performance nei “mi piace”, ma ben lontane dal rispondere alla domanda di informazione di qualità da parte dei più giovani e, quindi, non utili a stringere con loro quel patto di fiducia necessario per creare un rapporto di lunga durata.
Il digitale inoltre ha messo in moto un continuo cambiamento facendo invecchiare molti formati digitali addirittura più rapidamente che non quelli analogici (il CD rispetto al vinile per fare il più banale degli esempi); agli occhi dei più giovani probabilmente il sito web dei giornali è “vecchio” pressappoco quanto il giornale di carta, un tiggì della sera o di un talk show televisivo.
Ecco, ogni volta che un editore dichiarare che “il futuro è nel web”, motivato soprattutto dalla possibilità di tagliare ulteriormente i costi di produzione, mi domando se sia davvero consapevole che il passaggio dal sito web vecchio stile a “qualcos’altro” non presenti difficoltà e sfide non certo minori di quello dal cartaceo al web (e di conseguenza necessità di investimenti in strumenti e professionalità).
#Mediastorm è anche il titolo del mio libro edito da Hoepli nella collana Tracce, qui la sua scheda, Lo puoi trovare in libreria oltre che sui principali store online → Hoepli, Amazon, Bookdealer, Ibs, Feltrinelli, Mondadori.
È davvero tutto per questo numero, in questo periodo non riesco a rispettare la cadenza abituale di pubblicazione, me ne scuso, grazie per aver letto fino a qui! Alla prossima puntata.
Lelio.
Bel pezzo Lelio.
C'è anche chi fa il giornalista+influencer e fa benissimo, sia perché cura meglio il suo personal brand e aggiunge introiti alla propria attività, sia perché sono loro a fare da traghettatori o da puntini di unione tra canali, formati e audience. Devo fare qualche nome? 😊
Ma sono ancora pochi nelle grandi testate. Forse di più quelli che già lavorano per aziende e testate posizionate già decisamente meglio rispetto ad alcuni dinosauri cartacei che hanno web e social come figli ancora immaturi.
Interessante fotografia di quello che sta succedendo, condivido praticamente tutto di quello che scrivi. Vorrei aggiungere che piattaforme come Substack (su cui anch'io scritto) abbiano il vantaggio di lasciare al content creator la proprietà del proprio pubblico, cosa non vera per i grandi network - e questo spiega il loro successo, oltre agli aspetti più tecnici. Sarebbe ancora più interessante capire dove atterrerà tutto questo e che fine farà l'informazione, ma passiamo alla modalità "sfera di cristallo"