#Mediastorm 84 – L'inizio della fine delle guerre dello streaming
Almeno per come ce le siamo immaginate fino ad oggi: dominate da un modello a "una dimensione" che non vedrà mai la piena realizzazione. Benvenuti nell'era della transizione permanente.
C’è stato un tempo nel quale ci si è convinti, un po’ tutti a dire il vero, che a dominare le industrie dei media e dell'intrattenimento sarebbe stato un modello “a una dimensione”: un unico canale di distribuzione (il digitale), un’unica fonte di reddito (le subscription), offerte con un’unica tariffa (decisamente economica), per dare accesso a un unico sterminato catalogo composto unicamente da contenuti originali in esclusiva, privi dei costi di licenza da versare a terzi.
È il modello che i dirigenti delle media company, alimentati dagli investitori finanziari, hanno pensato fosse il futuro del loro settore, ci hanno puntato e trasferito la maggior parte — se non la totalità — delle risorse per raggiungerlo e portarlo a compimento “senza sé e senza ma”, dopo un inevitabile — e nelle intenzioni, più breve possibile — percorso di transizione.
Solo che in questo periodo di transizione i “sé” e di “ma” vengono aggiunti uno dopo l’altro, posticipano continuamente la piena realizzazione di quel modello mono-dimensione; tanto che è lecito pensare che la transizione sia ormai strutturale e quel modello, la piena realizzazione, non la vedrà davvero mai.
Benvenuta, benvenuto, io sono Lelio Simi e questo è l’ottantaquattresimo numero di #Mediastorm una newsletter di appunti, storie, segnalazioni, dati e approfondimenti per cercare di capire come la tecnologia ha trasformato/sta trasformando/trasformerà l’economia delle industrie dei media e il nostro rapporto con i loro “prodotti”. Se non lo sei già, puoi iscriverti da qui:
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🟠 L’era della transizione permanente
Uno dei primi grandi nodi da sciogliere lo presenta uno dei pilastri del modello a una dimensione che è, come detto, quello di avere un catalogo composto esclusivamente — o per la maggior parte — da contenuti originali liberi dai costi di licensing da versare ad altre media company (molte delle quali dirette concorrenti).
Chi ha iniziato qualche anno fa da zero (come Netflix) deve impegnare ogni anno un’enormità di risorse per produrre una quantità enorme di nuovi titoli per recuperare il gap con chi è sul mercato da molti decenni (se non da circa un secolo); proprio questi ultimi invece (come Disney o Paramount) hanno il problema di dover scegliere tra mantenere i propri titoli in esclusiva o rinunciare ai grandi guadagni dal concederli in licenza (fino a 100 milioni di dollari l’anno per serie come Friends o The Office).
Sia nel primo che nel secondo caso il rapporto costi/benefici alla fine ha presentato il conto: troppo oneroso produrre tutti quei contenuti, troppo alti i margini di guadagno dello sfruttamento dei diritti dei propri contenuti per rinunciarci totalmente in favore di quelli, decisamente molto più bassi, realizzati grazie all’aumento della base abbonati.
La scelta alla fine è stata la più ovvia, la classica via di mezzo: mantenere alcuni dei propri titoli in esclusiva e concederne altri in licenza (il mestiere del CEO è quello di avere il coraggio di prendere decisioni difficili, ma solo le rare volte che non deve prendere quelle più facili e comode come chiunque altro potrebbe fare).
Difficile pensare che questa sia una scelta strategica transitoria, per come si sta consolidando il mercato.
Ad esempio: negli Stati Uniti questa estate ha destato stupore il fatto che Warner Bros. Discovery (WBD) abbia deciso di cedere in licenza al suo concorrente più temibile — Netflix — alcuni titoli targati HBO (il suo fiore all'occhiello): è stata la prima volta nel mercato americano in quasi un decennio che dei titoli della HBO sono finiti su una piattaforma streaming rivale, ha fatto notare l'Hollywood Reporter.
Ma i bilanci economici di WBD non lasciano molte alternative, e non è certo l’unica ad essere in “sofferenza”: questo tipo di accordi sono qui per rimanere.
Ancora più di recente si è parlato molto dell’enorme successo registrato da Suits una serie TV la cui ultima puntata, dopo nove stagioni, è andata in onda nel 2019: la serie questa estate è diventata lo show più visto negli Stati Uniti, con 50 milioni di ore di visualizzate ogni settimana, in particolare da quando Netflix ne ha acquisito i diritti da NBCUniversal per una cifra tra i 20 e i 30 milioni di dollari l’anno.
Il fatto che una “vecchia” serie che aveva ottenuto un discreto (ma non straordinario) successo oggi venga rilanciata con questi numeri per merito di Netflix ci dice che ci sono rapporti di forza molto diversificati tra le piattaforme streaming, per il mix tra qualità della tecnologia (algoritmi di raccomandazione, esperienza utente), qualità del catalogo nel quale un singolo titolo viene inserito e dimensione della base abbonati.
NBCUniversal sta pensando di sfruttare economicamente questo nuovo successo (anche) con una nuova stagione di Suits cosa che molto difficilmente sarebbe successa senza il passaggio su Netflix.
Per questo partnership e accordi come questo sono qui per restare, come scrive in un’ottima analisi Midia Research:
La volontà di NBCUniversal di concedere in licenza i contenuti del proprio catalogo ai concorrenti che operano nello streaming è il segno che questo mercato sta maturando e riconsidera le strategie sulle licenze. Sono accordi come questi che dimostrano che il settore è arrivato all’inizio della fine delle guerre dello streaming.
La crescita futura non deve più essere trovata impegnandosi in una battaglia a tutto campo per gli abbonati. I servizi TV in streaming possono stringere partnership con i rivali per fornire pacchetti economicamente vantaggiosi e far crescere il numero dei propri abbonati, anche se il ritorno economico per abbonato è inferiore rispetto a quello offerto in esclusiva.
🟠 La grande riaggregazione è cominciata
La grande revisione delle politiche di licensing è conseguenza del totale ripensamento di un altro pilastro del modello a una dimensione dello streaming: l’eliminazione dei bundle ovvero i “pacchetti” di canali (spesso parecchie decine) che le TV via cavo/satellite raggruppano in un unica offerta al consumatore.
Come ad esempio Spectrum TV (15 milioni di abbonati) di Charter Communication che, nelle settimane scorse, è stato la causa del lungo braccio di ferro tra il secondo operatore via cavo degli Stati Uniti e la Disney: “il pomo della discordia — come ha scritto il Foglio — riguarda i contenuti in streaming che Disney vuol tener fuori dall’accordo mentre Charter chiede che i suoi clienti possano accedervi gratis, perché sostiene di pagare già un premio per questo”.
Se si aggiunge che nella lunga trattativa si è arrivati davvero ai ferri corti causando un black-out (Disney ha interrotto la fornitura dei propri canali a Charter) e che tra quelli della Disney c’è anche il canale ESPN che trasmette le partite del campionato di football americano, si capisce perché negli Stati Uniti tutta la questione sia stata seguita con molta attenzione.
Seppure limitata al solo mercato nord americano tutta la faccenda mette bene in evidenza un (nuovo) momento di passaggio tra i grandi operatori via cavo (che sono però molto spesso anche fornitori di rete dati via Internet a banda larga e Wi-Fi) e le media company che forniscono contenuti.
L’analisi più interessante e completa l’ha scritta Ben Thompson nella sua newsletter Stratechery, qui riporto solo un paio di passaggi fondamentali per le considerazioni che sto facendo:
la Disney, insieme a tutti gli altri servizi di streaming, ha bisogno di aiuto per ridurre il tasso di abbandono (churn rate). Quando sei un servizio di streaming autonomo, l’unico modo per fermarlo è produrre continuamente nuovi contenuti imperdibili, il che è estremamente costoso. È molto più semplice se fai parte di un pacchetto e condividi l’onere di generare nuovi contenuti con altre soggetti.
La TV via cavo come la conosciamo è finita diversi anni fa con The Great Unbundling (il grande “spacchettamento”). Il significato dell’accordo appena annunciato tra Disney e Charter è che The Great Re-bundling è iniziato.
🟠 La pubblicità nello streaming è qui per restare
Un altro “dogma” del modello a una dimensione dello streaming, che fino ad adesso non ho ancora nominato, è la totale rinuncia ai ricavi da pubblicità; come sappiamo bene ormai non solo è stata introdotta anche nello streaming video ma è uno dei principali fattori di crescita economica (se non il principale) per queste piattaforme.
L’annuncio che anche Amazon introdurrà gradualmente la pubblicità su Prime Video (e chi non vorrà vederla dovrà pagare un extra prezzo) ci dice che questo tipo di strategia, introdotta da Netflix e a seguire da Disney soltanto lo scorso anno, è qui per rimanere a lungo e non semplicemente una scelta transitoria per rispondere alla saturazione degli abbonamenti premium.
Per Amazon questa scelta si inserisce in una strategia più ampia, visto che è diventata uno dei giganti della pubblicità; inoltre rappresenta un modo per profilare i suoi utenti ancora più nel dettaglio: conoscere chi è disposto a pagare un prezzo maggiore per non essere infastidito da interruzioni pubblicitarie è un’informazione molto preziosa per il marketing (anche Netflix ha cancellato l’abbonamento base senza pubblicità soprattutto per questa ragione, sapendo che ormai è in questa competizione con entrambi i piedi).
#Mediastorm è anche il titolo del mio libro edito da Hoepli nella collana Tracce, qui la sua scheda, Lo puoi trovare in libreria oltre che sui principali store online → Hoepli, Amazon, Bookdealer, Ibs, Feltrinelli, Mondadori.
È davvero tutto per questo numero, grazie per aver letto fino a qui. Alla prossima puntata.
Lelio
Grazie per la risposta. Nel caso di Amazon si, l’intrattenimento è un di più, nel caso di Apple mi pare ci sia invece una traettoria già definita per arrivare alla preponderanza dei ricavi da sottoscrizioni di servizi. Ma in generale sono d’accordo si esce dai parametri tradizionali
Complimenti per la newsletter che ho seguito da poco. Mi chiedo: e se il churn rate venisse superato con la crossmedialità? Io stesso mi iscrivo e disiscrivo da varie stagioni in base alle produzioni del momento, ma se quei contenitori mi offrissero radio, canali tv, giornali, notizie testuali, podcast, beh sarei forse più coinvolto e fedele.