#Mediastorm 82 – Netflix contro tutti
I conti economici di Netflix, il clamoroso cambio di strategia alla Disney e lo sciopero degli attori a Hollywood. Cosa resta della "grande revisione dello streaming"?
È passato circa un anno e mezzo da quella che è stata definita “la grande revisione dello streaming” — Netflix perde un milione di abbonati e il valore delle sue azioni crolla a -68% tra gennaio 2021 e giugno 2022 — una situazione che ha messo in discussione un intero settore, lo streaming appunto, ritenuto da molti un gigante morente destinato a sgretolarsi. Una sentenza che, con varie sfumature, anche oggi in molti continuano a emettere.
Certo, l’enorme crescita della competizione ha cambiato per sempre le dinamiche di questo mercato facendo sorgere limiti strutturali destinati a rimanere per molto.
Eppure da allora Netflix (c’è chi lo aveva dato vicino al fallimento) ha ripreso a crescere a Wall Street, non ha raggiunto il picco del 2021, e chissà se mai lo raggiungerà, ma da inizio anno a oggi (al momento nel quale invio questa newsletter) il titolo mette a segno un +37,5% e, negli ultimi dodici mesi, un +78% (tornando più o meno ai livelli di metà 2020). Non esattamente quello che ci si aspetta da un’azienda in crisi.
Chi ha ragione, dunque, chi oggi continua a prevedere una crisi irreversibile dello streaming o chi, al contrario, punta ancora su un suo crescente dominio?
Nell’era digitale ci siamo abituati alle grandi contraddizioni, agli opposti che convivono in un unico “luogo”, ma in queste ultime settimane ci sono stati tre “eventi” che forse ci aiutano a definire meglio queste contraddizioni.
Mi riferisco a:
I più recenti (e molto attesi) dati economici e finanziari di Netflix — il leader del settore — non sembrano affatto descrivere un’azienda in difficoltà: reddito netto a 2,8 miliardi di dollari nei primi sei mesi dell’anno e 5,9 milioni di abbonati paganti in più rispetto al trimestre precedente (una crescita superiore alle previsioni).
Il sorprendenti cambio di strategia alla Disney voluto da Bob Iger, l’uomo che ha reso proprio la Disney la società di intrattenimento più potente del mondo. Iger ha dichiarato le risorse televisive lineari dell’azienda (circa un terzo del suo valore complessivo) non fondamentali e le ha praticamente messe in vendita per favorire lo sviluppo dello streaming.
L’attuale sciopero degli attori e degli sceneggiatori di Hollywood, che ha come elemento fondamentale quello di porre un limite alla logica imposta dallo streaming, e in particolare da Netflix, nel timore che diventi sempre più forte, imponendo la sua “cultura” a tutta l’industria cinematografica e televisiva.
Guardiamo un po’ più nel dettaglio.
Benvenuta, benvenuto, io sono Lelio Simi e questo è l’ottantaduesimo numero di #Mediastorm una newsletter di appunti, storie, segnalazioni, dati e approfondimenti per cercare di capire come la tecnologia ha trasformato/sta trasformando/trasformerà l’economia delle industrie dei media e il nostro rapporto con i loro “prodotti”. Se non lo sei già, puoi iscriverti da qui:
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Netflix, il giro di vite sulle password (che sta funzionando) e il reddito netto
Quelli di metà 2023 erano per Netflix conti economici molto attesi dagli addetti ai lavori, per avere i primi indizi sugli effetti delle storiche decisioni prese dall’azienda: giro di vite su condivisione delle password e introduzione abbonamenti con pubblicità.
Sul giro di vite alla condivisione delle password si temeva, almeno nell’immediato, un effetto boomerang tanto che la stessa Netflix aveva previsto che l’azione non avrebbe aumentato la sua base di clienti fino alla seconda metà di quest’anno, ma i dati suggeriscono che ha già spinto milioni di persone in più a iniziare a pagare.
In particolare nel mercato del Nord America (Stati Uniti e Canada), quello più ricco ma con il più alto livello di saturazione, gli abbonati a pagamento sono cresciuti di 1,275 milioni nei primi sei mesi del 2023 recuperando ampiamente il -0,919 milioni dell’intero 2022. Le persone sottoscrivono un abbonamento più velocemente di quanto non lo annullino in questa area di mercato, non una cosa da poco in un settore ossessionato dal tasso di abbandono (il temutissimo churn rate).
Per Netflix non mancano certo le sfide per il futuro ma guardando i bilanci un altro dato da tenere in considerazione è il reddito netto (net income) che sebbene nei primi sei mesi del 2023 complessivamente sia sceso sotto i 3 miliardi di dollari, a livello di dato semestrale non accadeva da almeno due annualità, è comunque positivo (2,8 miliardi di dollari) in un settore come quello dello streaming dove nessuno riesce a generare profitto.
Spotify non è mai riuscito a farlo nel campo dell’audio (e chissà se ci riuscirà mai), non ci riescono soprattutto i diretti concorrenti di Netflix a cominciare da Disney. E questo vorrà dire pur qualcosa.
Disney, le reti televisive sono una zavorra di cui liberarsi? (Per poi vendere tutto il resto alla Apple)
“Non-core asset” è la definizione fatta a metà luglio da Bob Iger di un terzo, per valore, della Disney, ovvero le reti televisive tradizionali di proprietà dell’azienda — in particolare ABC, FX e Freeform (ma non la ESPN)— dichiarate appunto “non essenziali” per l’attuale modello dell’azienda. Una dichiarazione che ha, oggettivamente, del clamoroso. Come fa notare Bloomberg:
È una svolta sorprendente, anche se inevitabile, per un dirigente che ha trascorso gran parte della sua carriera lavorando in TV e per un’azienda che ha fatto affidamento sulle reti via cavo per la maggior parte dei suoi profitti. Prima della pandemia, i media network della Disney generavano il 35%, o 24,8 miliardi di dollari, dei ricavi dell'azienda e oltre il 50%, o 7,5 miliardi di dollari, del suo reddito operativo.
Bob Iger ha probabilmente voluto sottolineare che è disposto a tutto pur di ridimensionare i costi, un messaggio diretto agli investitori finanziari, visto che il titolo Disney vede il segno meno da oltre un anno (-15% negli ultimi dodici mesi).
Ma è davvero significativo che rivolgendosi a Wall Street dichiari di essere disposto a sacrificare attività tradizionali come la TV lineare — che per decenni è stata la “mucca da mungere” per le media company — per cercare di aggiustare i conti dei parchi a tema e, soprattutto, concentrarsi sullo streaming.
Una strategia che ha messo nuovamente in circolo una voce che spunta regolarmente da anni: l’acquisizione della Disney da parte di Apple. Sembra difficile che proprio il CEO che ha costruito la Disney così come è adesso, oggi sia colui che la consegna ad un’altra società, ma resta comunque una delle prospettive.
E questo ci dice una cosa importante che possiamo già vedere in controluce: il futuro dell’industria dell’intrattenimento ha al suo centro lo streaming, che però ha il piccolo difetto che fino ad oggi nessuno, tranne Netflix, ha trovato il modo di realizzarci degli utili.
Solo le grandi aziende tecnologiche come Apple o Amazon potrebbero essere in grado di sostenerlo economicamente vedendolo — per la sua enorme capacità di attirare e fidelizzare i clienti — come un buon investimento, anche se in perdita, per continuare a venderci i prodotti e i servizi dai quali dipendono i loro ricchissimi fatturati.
Lo sciopero degli attori e la guerra delle metriche
Dopo quello degli sceneggiatori anche il SAG-AFTRA, il sindacato degli attori ha dichiarato sciopero: il grande punto critico — scrive Variety — è la richiesta del 2% delle entrate generate dagli spettacoli in streaming.
È un punto fondamentale anche per capire il cambio di paradigma introdotto dallo streaming: gli attori da sempre sono abituati a essere pagati, per una percentuale, anche in base agli effettivi incassi dei film o delle serie TV nei quali lavorano.
Se però nella vecchia industria televisiva e cinematografica era semplice determinarli — biglietti staccati al botteghino o raccolta pubblicitaria di uno spettacolo televisivo, certificati da società terze — le piattaforme tecnologiche sono da sempre abituate a “certificare” loro stesse i dati, e hanno una certa refrattarietà (eufemismo) a farlo fare da entità che prevedono l’equa presenza di tutti i soggetti del mercato.
Altro punto essenziale per capire il cambio di “cultura”: per le piattaforme tecnologiche come Netflix il risultato effettivo — banalizzando: il successo economico — si basa su metriche molto più complesse che in passato, ad esempio: quanto un titolo faccia acquisire nuovi abbonati, quanto consumare altri film dello stesso genere (o regista, o attore), quanto mantenere gli abbonati nel tempo.
Da ricordare: la guerra dello streaming, e in generale nella competizione delle piattaforme digitali, sarà sempre più una guerra delle metriche (quali scegliere e chi deve realizzarle per determinare i valori di mercato).
Il sindacato degli attori vuole risolvere il problema utilizzando la “Content Valuation”, uno strumento di misurazione messo a punto da Parrot Analytics — un’agenzia di analisi dati specializzata nel determinare la domanda e il “valore” di un contenuto digitale— per determinare quanto vale ogni spettacolo per la piattaforma.
E infatti la metrica utilizzata da Parrot non sta cercando di determinare il numero di spettatori, ma piuttosto l'impatto di ogni spettacolo sulle entrate economiche di un’azienda. Il problema è che alla controparte l’idea che quella metrica “indipendente” determini quanto devono pagare gli attori non piace affatto.
A Netflix a lungo hanno risolto il problema pagando cachet come se, comunque, la produzione fosse destinata a essere un grande successo (iniziavano dal niente e avevano necessità di attirare i migliori talenti di Hollywood). Questa strategia però, decisamente onerosa, oggi, al tempo della grande attenzione all’equilibrio costi/ricavi sembra impraticabile anche per il gigante dello streaming.
Ma una qualche formula andrà trovata; il braccio di ferro tra sindacato attori e gli studios su una questione che penetra così fortemente dentro la “cultura” dello streaming” si concluderà, probabilmente, con un compromesso. Ma qualsiasi formula verrà trovata potrebbe significare comunque un punto di svolta.
Una cosa interessante: se lo sciopero dovesse protrarsi per molto ancora le major si troverebbero in grande difficoltà a fare uscire nuovi titoli o a metterli nei cataloghi delle loro piattaforme streaming dipendendo quasi totalmente dalle produzioni realizzate negli Stati Uniti.
Netflix però sarebbe molto meno in difficoltà — realizzando quindi un vantaggio sui suoi concorrenti — avendo ampiamente dimostrato che grazie alla sua strategia glocal può riuscire a portare al successo internazionale, anche nel difficile mercato americano, produzioni realizzate lontano da Hollywood. Un controsenso niente male visto che lo sciopero degli attori vede proprio in Netflix il grande nemico.
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#Mediastorm è anche il titolo del mio libro edito da Hoepli nella collana Tracce, qui la sua scheda, Lo puoi trovare in libreria oltre che sui principali store online → Hoepli, Amazon, Bookdealer, Ibs, Feltrinelli, Mondadori.
È davvero tutto per questo numero (che spedisco un giorno in ritardo rispetto al consueto lunedì), grazie per aver letto fino a qui, appuntamento a settembre. Alla prossima puntata.