#Mediastorm 53 – Alla fine vince sempre la pubblicità?
Le recenti scelte strategiche di Apple, Netflix e New York Times sembrano dirci che i potenziali ricavi da advertising attraggono anche chi diceva di volerci rinunciare (quasi) del tutto.
Sembra proprio che Apple faccia sul serio con la pubblicità. La notizia che l’azienda abbia aperto 216 posizioni vacanti per il suo team pubblicitario (attualmente di circa 250 persone) ha fatto pensare in molti che abbia intenzione di scendere in campo in forze per rivoluzionare l'industria della pubblicità, come ha scritto il Financial Times:
Il business pubblicitario di Apple, qualche tempo fa ancora alle prime armi, è ora "incredibilmente in rapida crescita", si legge in un annuncio di lavoro dell’azienda. L'attività è passata da poche centinaia di milioni di dollari di ricavi alla fine del 2010 a circa 5 miliardi di dollari quest'anno, secondo il gruppo di ricerca Evercore ISI, che prevede che Apple realizzerà un'attività pubblicitaria di 30 miliardi di dollari entro prossimi quattro anni.
È da notare che — seppure in contesti, modalità e grandezze di scala diversi — altre importanti aziende dell’industria dei media, recentemente, abbiano deciso modificare sensibilmente le loro idee in fatto di ricavi da pubblicità: come è noto Netflix e, notizia di qualche giorno fa, il New York Times che ha deciso di introdurre la pubblicità nella sua recente acquisizione The Athletic, una testata fino ad oggi basata unicamente sui ricavi da abbonamento e orgogliosamente priva di advertising.
Con modalità diverse tutti e tre queste aziende (compreso il Times che alla pubblicità non ha mai rinunciato del tutto) per anni si sono proposte come modelli di business alternativi — se non addirittura “nemici” — della pubblicità tradizionale etichettata come “brutta, sporca e cattiva”: ovvero poco creativa, mortificante per l’esperienza utente ed eticamente scorretta nel nei confronti della privacy delle persone.
Tutte e tre queste aziende hanno deciso di “sporcarsi le mani” con la pubblicità per correggere un qualche problema dei loro modelli di business, ovvero: la stagnazione delle vendite del suo prodotto di punta (Apple), la decrescita del numero dei suoi abbonati (Netflix), l’urgente necessità di ridurre le perdite di un progetto editoriale acquistato, a caro prezzo, per aumentare il numero propri abbonati digitali (New York Times/The Athletic).
Insomma, brutalizzando il concetto: se hai un problema, qualunque cosa tu pensi della pubblicità, turati il naso e chiedile di portarti un po’ di soldi.
D’altronde ricordiamoci che al momento di decidere quale modello di business da adottare molti disruptor, che si sono presentati nel mercato media come il punto di rottura con i vecchi protagonisti di quei mercati, alla fine non hanno trovato nessuna “energia alternativa” per mettere in moto il meccanismo dei loro ricavi, puntando tutto (o quasi tutto) proprio su quelli da pubblicità, ovvero il più tradizionale e meno alternativo “carburante” dell’industria dei media. Google prima e Facebook dopo sono solo gli esempi più eclatanti, ma anche “il nuovo che avanza” TikTok basa tutto sui ricavi da advertising rispolverando, a modo suo, addirittura il buon vecchio spot televisivo.
Esiste davvero una pubblicità “buona” e una “cattiva”?
Mi sembra un punto fondamentale perché le aziende che hanno posizioni critiche verso la pubblicità oggi promettono una pubblicità diversa, migliore rispetto a quella tradizionale (online o offline che sia) più creativa, meno invadente, rispettosa dei nostri dati personali.
Ma è davvero così? È una domanda che si è fatta, a proposito della promessa di Apple, anche la giornalista Shira Ovide nella newsletter “On tech”:
“Apple può vendere con successo annunci online privati della parte cattiva? Questo sarà un test, con noi come soggetti del mondo reale, per verificare se può esserci un futuro della pubblicità digitale che non divori le nostre informazioni o se lo status quo è troppo potente per cambiare. [...] Il sistema pubblicitario digitale è brutto ma redditizio, in parte perché funziona. Apple fa molto meno affidamento su questi comuni metodi di monitoraggio online, ma potrebbe aver bisogno di piegarsi a questa realtà se vuole diventare un giocatore pubblicitario più grande. Inoltre, la campagna di Apple per reprimere i metodi pubblicitari esistenti e vendere i propri annunci apre l'azienda alla critica secondo cui si sta comportando in modo ipocrita”.
Per il momento dobbiamo aspettare ancora un po' di mesi per renderci conto quanto Netflix saprà mantenere la sua promessa di non realizzare spot brutti e fastidiosi "come quelli della TV", ma molto del suo futuro dipenderà anche da quanto saprà essere coerente con questo impegno. Mentre la scelta di “imporre” la pubblicità a The Atlantic da parte del New York Times ci dice che quest’ultimo, per quanto oggi tenga a definirsi ai suoi azionisti subscription-first, è consapevole che è ancora lontano il giorno nel quale potrà dirsi subscription-only.
Per quanto la pubblicità possa essere definita come "quella cosa che le persone sono disposte a pagare per non vederla" il modello di business che si basa solo sui abbonamenti o ricavi privi totalmente di annunci pubblicitari sembra, prima o poi, mostrare dei limiti. Anche in chi ha costruito attorno a sé comunità vaste come appunto Apple, Netflix e New York Times.
Benvenuta, benvenuto, sono Lelio Simi e questo è il cinquantatreesimo numero di #Mediastorm una newsletter di appunti, storie, segnalazioni, dati e approfondimenti su come la tecnologia ha trasformato/sta trasformando radicalmente le industrie dei media (e il nostro rapporto con i loro “prodotti”). Se non lo sei già, puoi iscriverti da qui:
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📖 Cose da leggere (su media e disruption digitale)
📽️ “Prendiamo una grande produzione che lavora con le piattaforme, pensiamo a Netflix: tre quarti dei film che produce sono commerciali e pop, ma per quelli su cui investe centinaia di milioni di dollari vuole il meglio dell’esperienza di marketing e di visibilità. Pensiamo a Roma di Alfonso Cuarón o Il potere del cane di Jane Campion e a tutti quei lavori per cui Netflix fa l’impossibile per portarli prima di tutto a un festival. Sembra un paradosso, no? Queste grandi imprese, che hanno puntato tutto sulla smaterializzazione della filiera cinematografica, sentono di dover dipendere dall’esperienza fisica più tradizionale per rendere il prodotto un must” 🔗 Nuove parole per dire cinema, intervista ad Alberto Barbera su The Italian Review.
🗣️ “Segnalazioni anonime sulle celebrità che diventano indovinelli e indizi da decifrare. Negli Stati Uniti e in parte anche in Italia, web e social sono (anche) lo spazio di un grande gioco collettivo. Se cliccate su www.crazydaysandnights.net si aprirà l’home page di un blog che sembra un relitto degli anni Zero: template nero, pieno zeppo di banner pubblicitari acchiappa-clic. Eppure, è più vitale che mai e la sua influenza continua a espandersi tra le piattaforme, dove legioni di appassionati sviscerano ogni suo post. Dal 2006, su Crazy Days and Nights sono stati pubblicati svariate migliaia di blind items all’anno: 8.500 solo nel 2014, per esempio”🔗 Blind items, l’evoluzione del gossip, Laura Fontana per Link Idee per la TV.
📰 “I critici sostengono che delle nuove regole beneficino esclusivamente i grandi conglomerati di media come quelli di proprietà di News Corp Australia, che dalle piattaforme suddette ha ricevuto l’equivalente di circa 50 milioni di euro. I sostenitori della legge, tuttavia, ritengono che non sia così. A marzo Bill Grueskin, professore alla Scuola di giornalismo della Columbia University, ha scritto che alcuni giornalisti locali sostengono che la legge australiana abbia rilanciato il business dell’informazione. Monica Attard, professoressa di giornalismo, gli aveva rivelato che, dall’approvazione del codice, non riesce a «convincere gli studenti a intraprendere uno stage perché trovare un lavoro a tempo pieno è diventato facilissimo» 🔗 I pro e i contro delle leggi per costringere Google e Facebook a pagare i giornali pubblicato da Il Post.
📊 Chart, chart, chart!
🐦Edicola Twitter, il network è ancora il "luogo" tra i social nel quale gli editori americani hanno complessivamente il pubblico più vasto, seguono Facebook e Instagram, mentre circa un quarto dei media non dispone di account TikTok ufficiali, lo rileva un'analisi Axios su 82 importanti editori di notizie, intrattenimento e sport degli Stati Uniti.
📺 Streaming, quanto mi costi: incluso lo sport, Amazon dovrebbe spendere 15 miliardi di dollari per la programmazione su Prime Video quest'anno, secondo Bloomberg Intelligence. È un budget 2 volte e mezzo quello di Apple TV e maggiore di tutti gli altri streamer a cominciare da Netflix.
🔍Consultazioni, quelli di Chartr hanno raccolto i dati su visualizzazioni di pagina per gli articoli in lingua inglese più visti su Wikipedia in un singolo giorno nel 2021 e ne hanno fatto questa infografica.
➤ #Mediastorm è anche il titolo del mio libro edito da Hoepli nella collana Tracce, qui la sua scheda, Lo puoi trovare in libreria oltre che sui principali store online → Hoepli, Amazon, Bookdealer, Ibs, Feltrinelli, Mondadori.
👋Prima di salutarci…
Segnalo, come settimana scorsa, un altro archivio, questa volta dedicato ai fumetti giapponesi, Imago Recensio, che ho trovato interessante, e divertente, per le raccolte di articoli anni Ottanta dei principali quotidiani italiani, che testimoniano le reazioni della stampa mainstream nostrana di fronte all’”invasione” dei cartoni animati giapponesi nelle nostre televisioni. “Dopo la violenza, la stupidità, il pessimo disegno, l'uso del computer, lo sfruttamento commerciale, e di certo tralascio qualche altro peccato mortale (basta cercare nell'Emeroteca anime), l'altra accusa mossa contro i "cartoni animati giapponesi" erano le lacrime. Cartoni pieni di piagnistei, che facevano leva su buoni sentimenti e tragedie varie per commuovere i poveri piccoli telespettatori e tenerli appiccicati davanti alla televisione”.
È tutto per questa settimana, alla prossima.
Lelio.
#Mediastorm: una newsletter di appunti, storie e idee sul nuovo ordine mondiale dei media a cura di Lelio Simi - n° 52 - 18 settembre 2022.
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[L’immagine del logo e nella testata di #Mediastorm è di Francesca Fincato].