#Mediastorm 25 – Blockbuster o "Coda lunga"?
Tra vecchi e nuovi formati, la corsa è determinata dall'esigenza di essere sempre più rilevanti nell'era della scelta infinita.
“Se con il tuo budget realizzi quattordici film ma solo undici sono fantastici, allora vuol dire che con quei soldi avresti dovuto farne solo undici”, ha detto così al New York Times, il capo dei film originali a Netflix Scott Stuber, qualche settimana fa.
Nella sua logica perfetta, la frase, è importante perché sotto molti aspetti sembra annunciare una svolta nelle strategie produttive in campo cinematografico da parte di Netflix: “Penso che una delle critiche giuste che ci hanno mosso sia che facciamo troppo e non abbastanza è fantastico, quello che vogliamo fare è migliorare sotto questo aspetto facendo un po’ meno ma meglio e più grande”.
In realtà Netflix quest’anno realizzerà circa 70 film, scrive il New York Times – ma secondo altre stime i film saranno 90, siamo intorno comunque alla media di un film prodotto ogni cinque giorni – che fanno di Netflix lo studio di gran lunga più produttivo di Hollywood (la maggior parte degli altri ne produce in un anno tra 25 e 30).
Netflix ha cominciato a produrre contenuti originali solo recentemente: del 2013 è la sua prima serie TV (House of cards) e del 2015 il suo primo film. Da allora la sua iper-produttività è determinata da due principali obiettivi: il primo è attirare (e mantenere poi nel tempo) sempre più abbonati e il secondo è costruire un catalogo di titoli di sua esclusiva proprietà per non dipendere troppo dalle grandi major cinematografiche (svincolandosi, tra l’altro, dagli altissimi costi per i diritti di licenza).
Insomma una corsa contro il tempo, fin tanto che riesce a mantenere una posizione di supremazia perché, nel frattempo, alcuni grandi mercati (Stati Uniti ed Europa) sono vicini alla saturazione come numero di abbonati e la concorrenza si fa sempre più consistente.
In questo contesto davvero Netflix può pensare di ridurre la quantità di film prodotti per aumentarne la qualità? Con quali conseguenze per i modelli di business come il suo tutti incentrati su “coda lunga”, algoritmi di raccomandazione e library (potenzialmente) infinite?
Benvenuta, benvenuto, io sono Lelio Simi e questo è il venticinquesimo numero di #MEDIASTORM una newsletter di appunti, segnalazioni, dati e approfondimenti su come la tecnologia ha trasformato/sta trasformando radicalmente le industrie dei media (e il nostro rapporto con i loro “prodotti”).
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Il contesto
Da un po’ di anni (anche in ambito accademico) si discute su quanto ancora siano importanti – nell’era degli scaffali infiniti di Internet – i pochi blockbuster (i “prodotti” ad alto margine di guadagno) e quanto la cosiddetta “coda lunga” formata dalla immensa quantità di titoli a basso margine di guadagno.
In un articolo di qualche tempo (febbraio 2017) fa l’Economist dichiarava che:
Nel complesso, tuttavia, i vantaggi dell'economia digitale vanno principalmente alle grandi piattaforme e alle società di media. Eric Schmidt, presidente esecutivo di Alphabet, la società madre di Google, ha affermato che il pensiero della sua azienda è stato fortemente influenzato dalla coda lunga; ma ha anche ammesso che la maggior parte del denaro si fa in testa.
Anita Elberse che insegna economia aziendale alla Harvard Business School, è forse la capofila di una serie di esperti convinti che anche nell’era di Internet e della scelta infinita i blockbuster siano al centro dell’industria dei media comprese le grandi piattaforme come Netflix.
Sull’argomento ha scritto un libro interessante Blockbuster (Faber And Faber, Londra 2014 non ancora tradotto in Italia) nel quale mette a confronto le strategie di due importanti direttori generali di altrettante importanti media company: Alan Horn che nel 1999 era diventato presidente e amministratore delegato della Warner e Jeff Zucker che negli stessi anni aveva assunto la guida del colosso televisivo NBC.
Il primo ha fatto una scelta ad alto rischio, investire l’intero budget per produrre quattro-cinque film invece dei 20 o 25 che di solito la Warner metteva ogni anno sul mercato; il secondo perseguendo una linea di tagli ai crescenti costi di programmazione ha invece diviso il budget su un numero elevato di produzioni. Visto che nel mio libro Mediastorm ne dedico un capitolo metto qui un passaggio:
Horn parte da una considerazione: “Nel settore cinematografico, il prodotto ha lo stesso prezzo per il consumatore indipendentemente dal costo di produzione, che il suo budget di produzione sia di 15 milioni o 150 milioni di dollari il biglietto ha lo stesso costo. Potrebbe quindi essere controintuitivo spendere più soldi, ma alla fine tutto sta nel convincere le persone ad entrare nei cinema”; quindi Horn decide di fare quello che “nessuno aveva osato fare”: riduce drasticamente il numero di produzioni per garantire a ogni titolo budget elevati per ingaggiare star di grande richiamo, realizzare i migliori effetti speciali e allestire massicce campagne di marketing.
La strategia “ad alto rischio” di Horn ha avuto successo e ha continuato ad averne anche in un altro colosso delle media company come la Walt Disney, dove Horn si è trasferito nel 2012; mentre quella del parsimonioso Zucker tutta giocata sul contenimento dei costi, della gestione a “basso rischio” dei margini di guadagno, si è rivelata un mezzo fallimento, racconta Elberse.
Per molti versi la frase che ho citato all’inizio del capo delle produzioni originali a Netflix sembra figlia di questa scuola di pensiero. Eppure proprio Netflix ha riportato in vita serie quasi dimenticate e messo in cantiere film che nessun’altro avrebbe prodotto perché convinta che potevano farle conquistare nicchie di spettatori che, una volta trasformarli in abbonati fedeli, nel tempo avrebbero ripagato quell’investimento. Perché allora pensare a una svolta così radicale?
Una questione di rilevanza
C’è un punto fondamentale: lo fa notare l'analista dei media Richard Greenfield (cito ancora l’articolo del New York Times):
“Tutta Hollywood sta puntando su una cosa: non puoi creare un momento di zeitgeist da un film online”, Il vantaggio principale che gli studios indicano quando si confrontano con Netflix è la loro capacità di creare un momento culturale quando aprono un grande e vivace blockbuster nei cinema di tutto il mondo.
Se per “momento culturale” si intende qualcosa che incide sull’immaginario collettivo per lungo tempo (addirittura più generazioni) e non crea soltanto un certa hype al massimo per qualche mese, allora in effetti le major hollywoodiane non hanno tutti i torti.
In questo caso all’interno della logica “produrre meno ma meglio” l’uscita nelle sale cinematografiche potrebbe significare per Netflix qualcosa di molto di più che non un “balzello” da pagare per far partecipare i propri film a importanti festival. Significherebbe invece che, per dare rilevanza a un film sul quale si sta puntando molto (per farlo diventare un “momento culturale” importante), serve un percorso dentro il circuito dei cinema “alla vecchia maniera”.
È un punto molto interessante ad esempio pensiamo a come i “vecchi percorsi” siano ancora fondamentali per creare e consolidare franchise cinematografici sui quali, senza dubbio, Netflix è ancora molto indietro rispetto alle major.
Possiamo allargare la riflessione ad altre industrie dei media, ad esempio ci si è chiesti se i grandi successi nel digitale del New York Times, del Financial Times o del Guardian sarebbero avvenuti senza che, dietro tutto, ci fossero dei giornali cartacei di così grande prestigio e storia (e a proposito tutte e tre queste testate hanno dichiarato che l’obiettivo per loro, anche nel digitale, sarà quello di produrre meno articoli ma farli diventare ancora più rilevanti).
E d’altronde anche molti editori all digital da BuzzFeed a il Post stanno pubblicando con successo libri di carta da fare uscire nel circuito delle librerie. Qualche tempo fa in questa newsletter ho raccontato della disputa tra Amazon e Macy’s per un “vecchio” cartellone pubblicitario a New York.
Insomma per quanto il futuro sia certamente nell’online, per prosperare in molti si accorgono che non puoi permetterti di restare sempre dentro la sua bolla.
Credo che la riflessione tra vecchi e nuovi formati (vecchi e nuovi circuiti di distribuzione) così come sulle vecchie e nuove strategie di produzione basate su grandi successi o “coda lunga” sia ancora importante da fare. In tutto questo la ricerca di rilevanza gioca un ruolo fondamentale e presenta probabilmente aspetti meno scontati di quanto si è pensato fino ad oggi.
📝Tre storie da leggere (su media e disruption digitale)
1️⃣ Dall’alba di Auditel alla Rete
All’inizio dei Novanta mancavano quindici anni a Google e ai contratti adword, le social shitstorm erano lontane da venire, per cui nessuno prevedeva che da lì a poco sarebbe nato un altro medium che avrebbe messo radici immediate nel mercato, a partire dalle migliaia di artigiani e negozietti per i quali la comunicazione era, ben che andasse, un volantino. Come nei ruggenti anni Ottanta, anche oggi serve a tutti, a industrie, investitori e pubblici, trovare delle equivalenze tra i dati tradizionali e quelli digitali. → I dati sono (anche) questione di postura, Stefano Balassone firma il primo approfondimento dello speciale Metrix che la rivista Link dedica alla questione metriche e industria dei media (tempo lettura 9 minuti).
2️⃣ La “bolla” dell’editoria italiana
Il paradosso di pubblicare sempre più libri in un paese dove sempre meno persone leggono è presto spiegato: il vero business che ruota intorno ai libri non ha nulla a che fare con le vendite. È infatti la distribuzione il motore immobile intorno al quale ruota tutto il resto. Da un lato il mercato editoriale italiano sembra vivere in una bolla, dall’altro le tendenze più importanti a livello globale dimostrano che a venire progressivamente meno sono proprio i capisaldi che reggono l’idea di editoria tradizionale: autorialità, peso dell’editore, intermediazione delle librerie e funzionamento del sistema logistico. → L’editoria è scollata dalla realtà, dati e riflessioni interessanti di Tiziano Cancelli sul sito Siamomine (tempo lettura 10 minuti).
3️⃣ Tanti follower, tanti libri venduti. O no?
Le fandom e i social media possono aiutare gli autori a ottenere attenzione sui loro libri, ma tutto questo si traduce anche su quanto venderà un nuovo titolo? Gli editori sono sempre più scettici. Il seguito social di un autore è diventato una parte standard dell'equazione quando gli editori decidono se pubblicare un libro, è un fattore che influenza se ottenere o meno un contratto per un libro e quanto grande sarà l'anticipo pagato, specialmente quando si tratta di saggistica. Ma nonostante la loro importanza questi parametri, sono visti sempre più come indicatori imprevedibili di quanto effettivamente andrà bene un libro. → Millions of Followers? For Book Sales, ‘It’s Unreliable’, ne scrivere Elizabeth A. Harris sul New York Times (tempo lettura 6 minuti).
👋Prima di salutarci…
Quando i giornali si preoccupavano di formare i lettori del futuro: la guerra in Bosnia spiegata (bene) ai ragazzi. E illustrata da un maestro come Sergio Toppi: dal Giornalino del 12 marzo 1997, lo speciale completo è raccolto in questo post del preziosissimo blog corrierino-giornalino.blogspot.com che raccoglie 25 anni di queste pubblicazioni.
#Mediastorm: una newsletter sul nuovo ordine mondiale dei media a cura di Lelio Simi - n° 25 - 19 dicembre 2021.
→ #Mediastorm è anche il titolo del mio libro edito da Hoepli nella collana Tracce, qui la sua scheda, Lo puoi trovare in libreria oltre che sui principali store online: Hoepli, Amazon, Bookdealer, Ibs, Feltrinelli, Mondadori.
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[L’immagine del logo e nella testata di #Mediastorm è di Francesca Fincato].