#Mediastorm 13 - Quanto i problemi di Facebook sono anche problemi per Facebook?
Da quando il Wall Street Journal ha pubblicato nelle settimane scorse una serie di inchieste su Facebook, sul social si è scatenata una nuova tempesta di polemiche; i “Facebook Files” denunciano come le sue piattaforme siano colpevoli di gravissime disfunzioni che vanno dal mancato rispetto delle regole di moderazione dei contenuti, alla promozione della disinformazione sui vaccini per finire alla accusa di essere “tossico” per gli adolescenti.
Accuse che non sembrano smettere di essergli indirizzate: ProPublica ha in questi giorni pubblicato una nuova indagine che racconta nel dettaglio come il marketplace di Facebook sia stato utilizzato per compiere numerose truffe.
Torna alla mente una copertina “storica” di Wired di marzo del 2018, all’indomani dello scandalo “Cambridge Analytica” che ritraeva un Mark Zuckerberg col volto tumefatto, quella copertina segnalava in modo eclatante un punto di svolta nella percezione di Facebook e del suo creatore, dalla sterminata ammirazione verso il ragazzo d’oro della nuova economia di Internet all’odio nei confronti del grande manipolatore.
Da allora si sono susseguiti molti altri “scandali” che lo hanno additato come un sistema perverso e pieno di difetti. In questi poco più di tre anni si sono susseguiti titoli di giornali del tipo: “Mark Zuckerberg è (quasi) k.o sulla copertina di Wired Usa e i giovanissimi scappano da Facebook”, “È iniziato il declino di Facebook?”, “Facebook: verso la fine di un mito?”, e molti altri che ne decretavano la profonda crisi se non addirittura la fine imminente.
Eppure da quel marzo del 2018 la capitalizzazione di Facebook è passata da circa 400 miliardi agli oltre 800 miliardi di dollari attuali, Facebook ha continuato ad attrarre una montagna di investimenti pubblicitari: dai 55 miliardi del 2018 agli oltre 84 miliardi di dollari del 2020.
La domanda oggi è: c’è qualcosa di diverso in questi nuovi scandali? Riusciranno queste nuove rivelazioni a portare un reale e concreto cambio del suo modello di business, a fare in modo che i problemi che Facebook sembra continuamente generare, i suoi difetti, rappresentino davvero un problema anche per i suoi conti economici?
Perché altrimenti è tempo di chiedersi che cosa è, oggi, l’industria dell’advertising se un’azienda che genera così tante, enormi, criticità continua imperterrita a rappresentare una miniera d’oro, attirando un numero spropositato di investitori pubblicitari.
Benvenuta, benvenuto io sono Lelio Simi e questo è il tredicesimo numero di #MEDIASTORM una newsletter di appunti, segnalazioni, dati e approfondimenti su come la tecnologia ha trasformato/sta trasformando radicalmente le industrie dei media (e il nostro rapporto con i loro “prodotti”).
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Ma questa volta perché le cose potrebbero essere molto diverse? Secondo Casey Newton, che ha scritto una delle cose più interessanti da leggere a riguardo, la verà novità delle inchieste del WSJ è che i dati sui quali si basano provengono dalla stessa Facebook, essendo stati rivelati dagli stessi dipendenti: documenti interni che Zuckerberg non ha voluto rendere pubblici.
“La maggior parte degli scandali di Facebook va e viene. Ma questo sembra diverso dagli scandali di Facebook del passato, perché è stato guidato dalla stessa forza lavoro di Facebook”
La risposta a queste accuse di Zuckerberg e soci ricalca sempre lo stesso schema: non è colpa nostra è molto complicato gestire una piattaforma così complessa, ma rimedieremo, fidatevi di noi:
“Vorrei che ci fossero risposte facili a questi problemi, e che le scelte che da fare non fossero arrivate con difficili compromessi. Non è questo il mondo in cui viviamo” ha scritto Nick Clegg l’ex vice primo ministro del Regno Unito oggi a capo della comunicazione di Facebook.
Per carità non è che Facebook non abbia fatto niente in questi anni, ha speso 13 miliardi di dollari per migliorare la moderazione e controllare i contenuti pubblicati.
Tuttavia possiamo avere ancora dubbi che, alla fine, il suo sistema di business possa cambiare realmente, come scrive Frédéric Filloux:
“Per ridurre la diffusione dei contenuti tossici basterebbe giocare su alcuni elementi del suo algoritmo. Ma ciò ridurrebbe il coinvolgimento, che è la velocità di propagazione moltiplicata per il numero di interazioni. Tuttavia, l'engagement è il primo indicatore che Mark Zuckerberg guarda al mattino quando arriva in ufficio. Il boss di Facebook ha deciso che era fuori discussione toccarlo, perché il business dipende da questo. L'azienda investe fortune nella pulizia della sua fossa settica, è innegabile, ma non si priva volutamente degli strumenti che alimentano quella stessa fossa”.
Tutto questo avviene mentre l’industria della pubblicità e del marketing sta cambiando notevolmente. Da una parte proprio il fai-da-te abilitato anche nell’advertising da piattaforme come Facebook e Google sta spostando il rapporto di forza dentro questa industria dai grandi investitori verso i più piccoli; lo abbiamo già visto con la campagna di boicottaggio “Stop Hate for profit” (sostanzialmente fallita e rientrata dopo poco) da parte dei grandi brand verso Facebook che ha messo, sotto gli occhi di tutti, un dato esemplificativo: i primi 100 investitori di Facebook pesano sul totale dei suoi ricavi pubblicitari un misero 6%.
Ma a scrivere che i piccoli investitori saranno sempre più protagonisti di questa industria e che le grandi agenzie faranno fatica ad intercettarli è anche GroupM (il centro media più grande al mondo) in una sua nota:
“Possiamo calcolare approssimativamente che Google e Facebook hanno catturato il 70% della pubblicità digitale negli Stati Uniti durante il 2020 ma, poiché sappiamo che lo scorso anno i marchi più grandi tendevano a spostare la loro spesa verso altri proprietari di media, questa quota è stata quasi certamente sostenuta dall’aumento della presenza delle piccole imprese nel mercato della pubblicità digitale”.
Per quanto i grandi marchi possano ammantarsi di scelte etiche e scendere in campo (almeno per un po’) contro le big tech, le aziende tecnologiche che puntano sulla pubblicità, da Facebook e Google in giù, saranno sempre più capaci di attrarre i piccoli investitori con le loro piattaforme così semplici da usare e alla portata di tutti.
C’è poi da notare che gli stessi grandi brand comunque, campagne etiche o meno, continuano a chiedere una pubblicità sempre più basata sui dati personali, lo scrivevo in un numero di questa newsletter di qualche settimana fa citando un’intervista a Marc Pritchard l’uomo che decide gli investimenti pubblicitari di Procter & Gamble il più grande investitore pubblicitario al mondo:
“Stiamo lavorando da tempo per reinventare la costruzione del marchio per allontanarci dal marketing di massa molto tradizionale con molti sprechi, per raggiungere ancora la massa, ma con una precisione molto maggiore [...] la programmatic sarà il futuro poiché le cose continueranno a diventare più digitali perché ciò ti consente di trovare il pubblico giusto per indirizzare l'annuncio giusto al momento giusto al prezzo giusto e non farlo con una frequenza eccessiva”.
Il quadro generale: secondo ultime previsioni di GroupM i ricavi globali dei proprietari dei media da investimenti pubblicitari aumenteranno tra 2021 e 2026 di circa 265 miliardi di dollari, di questo incremento il 28% andrà alla motori di ricerca, mentre il 64% al digitale “esclusa la search” (facendo due calcoli: i “pure player” di Internet secondo queste previsioni si “mangeranno” il 92% di tutto questo aumento).
Non c’è che dire una bella e ricca partita, per quanto Facebook (e altre big tech) potranno continuare ad assicurare una “totale misurabilità” dei loro risultati al momento di vendere spazi pubblicitari e alzare le spalle e dichiarare “non sapevamo, non potevamo prevedere è tutto troppo complesso da valutare” al momento di sollevarsi dalle criticità?
Di certo la reazione di Facebook a queste ultime polemiche sarà quella di chiudersi ancora di più, aumentare la sua opacità.
Ma se nonostante tutte queste criticità che emergono continuamente, la logica di ottenere “engagement a tutti i costi” alimenterà ancora e sempre di più il business pubblicitario di Facebook trainando l'intero sistema, non dovremmo chiederci – davvero e seriamente – cosa sta diventando nel suo complesso l'industria della pubblicità e decidere le scelte concrete da fare, chiunque ne sia coinvolto, dalle grandi holding alle piccole e piccolissime agenzie indipendenti?
📑 Tre cose #daleggere (su media e disruption digitale)
1️⃣ Uno, cento mille megafoni, sembra lontano adesso, ma c'è stato un tempo nel quale Internet ci stava salvando dalla minaccia della TV. Dalla fine degli anni Cinquanta, la TV ha avuto un ruolo speciale, come mezzo dominante del paese; ancora nel nel 2007, George Saunders ha scritto un saggio sull’idiozia dei mass media americani nell'era dopo l'11 settembre intitolandolo “L'uomo col megafono”, ma oggi il cambiamento più radicale nelle nostre vite sociali condivise non è rappresentato da chi è abilitato a parlare, ma da ciò che siamo abilitati ad ascoltare. È vero, ognuno di noi ha il proprio piccolo megafono, e c'è un dibattito infinito sul fatto che sia un bene o un male, ma la stragrande maggioranza delle persone non raggiunge un vasto pubblico. Eppure, in qualsiasi momento, chiunque abbia uno smartphone ha la capacità di sorvegliare milioni di persone in tutto il mondo.
→ On the Internet, We’re Always Famous di Chris Haynes sul New Yorker (tempo lettura 18 minuti).
2️⃣ Uno cento mille “raccomandazioni”. Che cos'è un sistema di raccomandazione, spiegato da YouTube: “Quando i consigli di YouTube danno il meglio di sé, mettono in contatto miliardi di persone in tutto il mondo a contenuti che ispirano, insegnano e divertono in modo unico. Per me, questo significa immergersi in lezioni che esplorano le questioni etiche che la tecnologia deve affrontare oggi o guardare i momenti salienti delle partite di football americano della University of Southern California che ricordo di aver visto da bambino. Per mia figlia maggiore, è stato trovare momenti divertenti e senso di comunità con i Vlogbrothers . E per mio figlio maggiore, le raccomandazioni hanno portato a una migliore comprensione dell'algebra lineare attraverso spiegazioni animate di 3Blue1Brown, con pause per guardare i video di KSI”.
→ On YouTube’s recommendation system, Cristos Goodrow sul Blog ufficiale di YouTube (tempo lettura 14 minuti).
3️⃣ Uno, cento, mille “osservatori” Al via l“Italian Digital Media Observatory”, un’altra iniziativa per combattere la disinformazione e le fake news ed in questa non viene coinvolta l’Agcom, il cui Osservatorio è in sonno da oltre un anno, la funzione degli “hub” è sia scientifica sia operativa: studiare l’impatto sulle società per diffondere pratiche positive nell’uso dei media digitali attraverso la “e-literacy” e il “fact-checking”. Il rischio latente è che sia stato creato un (altro) Osservatorio dalle grandi ambizioni, con una struttura burocratico-istituzionale sganciata dalle esigenze della comunità e deficitaria di logiche “bottom up” ovvero di partecipazione plurale e democratica.
→ Fake news, nasce l’ennesimo ‘Osservatorio’. Servirà?, Angelo Zaccone Teodosi su K4biz (tempo lettura 11 minuti).
🔢Un po’ di #numeri
Dati, valutazioni, budget pubblicitari emersi in settimana, insomma un po’ di riferimenti concreti per avere un’idea della dimensione delle industria dei media nel mondo e in Italia.
💰 Quanto spende Netflix in contenuti? “Dopo che il COVID ha bloccato quasi tutte le produzioni lo scorso anno, si prevede che Netflix aumenterà la spesa per i contenuti su base ammortizzata di un buon 26% nel 2021 a 13,6 miliardi di dollari – e il budget dello streamer potrebbe raggiungere i 18,9 miliardi di dollari entro il 2025, in confronto, la spesa per i contenuti ammortizzati di Netflix è stata di 10,81 miliardi nel 2020 e 9,22 miliardi di dollari nel 2019” (via Variety).
📈 Il valore di una delle maggiori case discografiche al mondo: la Universal Music Group è finalmente diventata pubblica martedì con una valutazione di 39 miliardi di dollari. Le azioni di Universal sono aumentate del 38% martedì mattina dopo che la società ha iniziato a negoziare sulla borsa europea, spingendo la sua valutazione vicino ai 46 miliardi di dollari (via Axios). Per dare un ulteriore parametro la capitalizzazione attuale di Spotify è di 44 miliardi di dollari.
📊 I numeri di Domani: secondo Italia Oggi il quotidiano diretto da Stefano Feltri “ha registrato una diffusione complessiva, tra carta e digitale sulle 25 mila copie di cui 15 mila abbonamenti (quasi tutti digitali) e circa 10 mila copie in edicola. Oggi la tiratura viene mantenuta intorno alle 40-50 mila copie”. L’ ultimo bilancio disponibile, che riguarda solo i primi mesi del giornale, indicano ricavi per 2,3 milioni di euro, e costi che hanno generato 1,9 milioni di perdite. Il quotidiano intanto è passato da 1 euro a 1,20 in edicola” (via blog Giorgio Levi).
#Mediastorm: una newsletter sul nuovo ordine mondiale dei media a cura di Lelio Simi - n° 13 - 26 settembre 2021.
→ #Mediastorm è anche il titolo del mio libro edito da Hoepli nella collana Tracce, qui trovi la sua scheda, oltre che in libreria lo puoi trovare anche su principali store online ad esempio: Hoepli, Amazon, Bookdealer, Ibs, Feltrinelli, Mondadori.
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[L’immagine del logo e nella testata di #Mediastorm è di Francesca Fincato].