#Mediastorm 65 – Il futuro dei media che non lo era
Se anche il “progetto perfetto” per avere successo nel brand-journalism è destinato a chiudere prima ancora di affermarsi, cosa resta del futuro del giornalismo finanziato dai marchi?
In questo numero:
Perché (spesso) il brand journalism non funziona (come ci aspetteremmo)?
Una delle notizie che più mi ha colpito questa settimana è quella relativa alla (possibile) prossima chiusura del sito Future. Ne parla diffusamente Business Insider:
Future era la prossima grande novità nel mondo dei media. Ma un anno e mezzo dopo, la pubblicazione sembra naufragata; non pubblica un nuovo articolo da mesi, la maggior parte dei suoi redattori se n’è andata e la sua newsletter è defunta. Una fonte che conosce la strategia dei contenuti della proprietà ha confermato che Future sta chiudendo.
È probabile che il suo nome non dica molto a diverse persone che mi stanno leggendo, eppure la chiusura (ok sì, probabile) di Future.com e, comunque, il suo evidente e rapido declino a nemmeno sedici mesi dal lancio online è molto significativo delle difficoltà di quello che è stato definito brand-journalism.
Un po’ di contesto. Future ha esordito nel giugno del 2021, un progetto editoriale che sembrava avere tutte le caratteristiche per rappresentare un punto di svolta: un brand come Anderssen Horwitz — probabilmente la società di venture capital più potente della Silicon Valley — disposta a investirci molto; una linea editoriale indirizzata da un principale obiettivo a lungo termine: mettere in evidenza gli aspetti positivi della tecnologia sulle nostre vite, in un momento nel quale i media sembrano tutti preoccupati a metterne soltanto in mostra quelli negativi.
Sotto molti punti di vista addirittura il progetto di brand-content “perfetto”, privo di tutti quei vincoli che — prima o poi — hanno limitato e portato alla chiusura dopo poco tempo anche i migliori esperimenti in questo campo: nessuna frenesia di “convertire” da parte del marchio proprietario i soldi spesi in vendita di prodotti o servizi.
L’obiettivo era, appunto, quello di intervenire nel dibattito sulla tecnologia per darne un punto di vista diverso da quello della agenda setting e, per questo, dare tutto il tempo necessario al progetto di crescere e affermarsi. Cosa si può volere di più dalla vita quando si parla di brand-journalism?
E infatti, al momento del suo lancio molti ne avevano visto, come accennavo prima, un possibile e importante punto di svolta: “Andreessen Horowitz’s ‘Future’ is a media machine” aveva titolato Protocol (il sito di notizie sull'industria della tecnologia che nel frattempo ha chiuso e licenziato tutto la redazione, giusto non dimenticare che quando parliamo di journalism parliamo di un settore in profondissima crisi).
Il New Yorker pochi giorni dopo l'esordio online ha dedicato a Future un longform intitolato “La tecnologia ha bisogno di una nuova narrativa?” dove la giornalista Anna Wiener (l'autrice di La valle oscura, in Italia pubblicato da Adelphi) sottolineava che “Pubblicando più contenuti editoriali, Andreessen Horowitz e altri, hanno l’opportunità di introdurre una nuova terminologia, nuove ideologie, nuovi punti di vista e nuovi modi per le persone dentro e intorno alla tecnologia di concepire il proprio lavoro”.
Ma Wiener faceva notare anche come, nonostante le pubblicazioni di proprietà di brand non siano affatto una cosa nuova, molti giornalisti avessero subito reagito all’annuncio del lancio di Future come se “ la società Andreessen Horowitz fosse un nuovo concorrente”, una minaccia: “c’è stato chi come il giornalista indipendente Eric Newcomer ha affermato che il debutto di Future fa parte di una strategia con ‘implicazioni drammatiche per il futuro dei media”.
Che cosa allora non ha funzionato? Future.com si è scontrato indubbiamente con la peggiore crisi delle aziende della Silicon Valley sia da punto di vista economico che di credibilità e questo è stato un ostacolo difficile da superare (ma d’altra parte non doveva, allora, essere questo il momento migliore per dimostrare la validità della sua linea editoriale?).
Alla fine, come sottolinea l’articolo di Business Insider, “Future non è stato all'altezza delle aspettative. Le persone sono attratte dal contenuto di una società di venture capital a causa dei nomi che ci sono dietro. Marc Andreessen e Ben Horowitz, i cofondatori dell'azienda, non hanno quasi mai scritto per il sito. Future è finito per essere un guazzabuglio di contenuti egocentrici. E per quello c'è già Medium”.
La società di venture capital oggi preferisce il blog del suo sito istituzionale per pubblicare contenuti (una scelta che è comune a molti altri brand che in passato avevano tentato di dare vita a siti di brand journalism indipendenti e autonomi).
Qualche tempo fa (aprile 2020) avevo scritto un articolo per Link proprio chiedendomi perché “il brand journalism spesso non funziona” anche quando sembrano esserci tutte le buone premesse per una sua riuscita (più di recente Gianluca Diegoli ha fatto, nella sua newsletter, delle riflessioni molto interessanti sul branded content).
Il punto è che l’equazione “every company is a media company” — a distanza di oltre dieci anni da quando è stata enunciata — presenta delle incognite che non erano state valutate e ancora da risolvere, mi sembra, a cominciare dai suoi reali obiettivi (“Ma allora a cosa serve il brand journalism? Quale dovrebbe essere il suo reale obiettivo, quale la metrica per calcolare il suo ‘tasso di conversione’?” scrivevo, scusate auto citazione, nel mio pezzo).
Certo esistono ancora ottimi progetti editoriali di brand-journalism, anche in Italia, ma il mio personale dubbio è che se anche il “progetto perfetto” in questo ambito sta fallendo forse abbiamo la seria necessità di ridefinire, dalle basi, cosa davvero sia “perfetto” per questo tipo di operazioni.
Benvenuta, benvenuto, io sono Lelio Simi e questo è il sessantacinquesimo numero di #Mediastorm una newsletter di appunti, storie, segnalazioni, dati e approfondimenti per cercare di capire come la tecnologia ha trasformato/sta trasformando radicalmente l’economia delle industrie dei media (e il nostro rapporto con i loro “prodotti”). Se non lo sei già, puoi iscriverti da qui:
Se dopo averla letta hai suggerimenti, domande o segnalazioni da farmi puoi scrivermi a questa email leliosimi@substack.com, altrimenti se quello che ho scritto ti suggerisce delle riflessioni puoi usare direttamente la sezione commenti, sarò felice di risponderti. Se invece vuoi consultare le altre puntate pubblicate puoi farlo da qui ► Archivio #Mediastorm.
📊 Chart, chart, chart!
📱 Il quadrante delle strategie TikTok per editori. Non sono indicazioni univoche e rigide visto che gli editori, nella pratica, spesso mescolano questi diversi approcci ai quali il Reuters Institute ha dedicato una lunga analisi per capire, tra le altre cose, quali siano gli elementi chiave per un editore di news per (tentare) di realizzare un account TikTok di successo.
🤬 Dissonanza cognitiva. “La relazione tra moderazione dei contenuti e creazione di valore è chiara; ed è positiva. In sintesi, più moderata è una piattaforma, più forte è la crescita e il valore aziendale. Il selvaggio West della (non) moderazione sono 4chan e 8chan. Sono praticamente senza valore, raccogliendo una frazione del traffico di Twitter [...] Qualunque cosa tu creda dovrebbe essere l'approccio di un'azienda privata alla libertà di parola è masturbazione mentale. La moderazione genera entrate e le entrate sono ossigeno” (come sempre molto interessante leggere la newsletter di Scott Galloway).
⚖ Rapporto qualità/prezzo. Nella rivoluzione dei prezzi degli abbonamenti nello streaming video chi sta offrendo il miglior rapporto tra qualità della library e prezzo per il suo accesso? L’agenzia Parrot Analytic (che ha messo a punto una propria metodologia per misurare la domanda dei contenuti in streaming) ha fatto una lunga analisi giungendo, tra l’altro, a questa conclusione: “Il livello pubblicitario è tra le migliori opzioni per il rapporto qualità-prezzo quando si confronta la domanda della piattaforma rispetto al costo mensile”.
👓 Un po’ di cose da leggere
🖼 Scenari/strategie.
All’interno della scommessa miliardaria fatta da James Cameron sul sequel di Avatar (🔖 The Hollywood Report) e perché il film è un momento decisivo per l’investimento da 71 miliardi di dollari della Disney sulla Fox (🔖 Bloomberg).
Ma alla fine cosa succederebbe se un’etichetta gestisse direttamente una piattaforma di streaming musicale? (🔖Billboard).
Elon Musk sta mostrando quanto Twitter possa essere una perdita di tempo (🔖The Economist), eppure stiamo sottovalutando il reale costo dell’eventuale implosione di questa piattaforma (🔖Wired.com).
🗣️ Storie
Il servizio Netflix per il noleggio DVD inviati tramite servizio postale è ancora attivo negli Stati Uniti e ha circa 1,5 milioni di fedeli abbonati che lo adorano, seppure ormai rassegnati alla sua inevitabile chiusura (🔖Associated Press).
Nel mondo pastello delle study influencer, viaggio tra scrivanie immacolate, evidenziatori pastello, penne a gel di marca e frasi motivazionali (🔖Siamomine).
🔍 Analisi/dati
Quanto vale una hit di TikTok? Il brano più popolare di quest’anno è cresciuto di oltre il 1.000% nello streaming (🔖Billboard).
22 fonti dati per comprendere l'industria musicale nel 2022 (🔖Musically).
Circa un quarto degli attuali abbonati statunitensi a Disney+ opterà per la versione a basso costo con pubblicità, secondo una nuova ricerca di Kantar (🔖Deadline).
📘 #Mediastorm è anche il titolo del mio libro edito da Hoepli nella collana Tracce, qui la sua scheda, Lo puoi trovare in libreria oltre che sui principali store online → Hoepli, Amazon, Bookdealer, Ibs, Feltrinelli, Mondadori.
👋Prima di salutarci…
Le origini di uno dei più grandi franchise cinematografici. A chiusura di questa puntata, un altro consiglio di lettura: Fumettologica ha riproposto nel suo account Facebook questo suo articolo del 2016 “Le guerre stellari prima di Guerre Stellari” di Alberto Brambilla, dove si racconta il contesto e le influenze culturali della saga e del suo creatore George Lucas, è un pezzo molto interessante perché ci svela le radici di quello che poi, come sappiamo, è ancora oggi una dei più potenti franchise dell’industria dell’intrattenimento e del nostro immaginario, lo fa con incursioni nel cinema e nel fumetto e con indicazioni a volte sorprendenti.
È davvero tutto per questa settimana, alla prossima.
Lelio.
#Mediastorm: una newsletter di appunti, storie e idee sul nuovo ordine mondiale dei media a cura di Lelio Simi - n° 65 - 11 dicembre 2022.
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[L’immagine del logo e nella testata di #Mediastorm è di Francesca Fincato].