#Mediastorm 94– La scomparsa dei link
Perché le industrie dei media non sono mai state davvero interessate a utilizzare le enormi potenzialità dei collegamenti ipertestuali?
Non amo molto i titoli nei quali si dichiara con eccessiva sicurezza la morte di qualche cosa per poi, magari, qualche tempo dopo dichiararne la “rinascita” quando, in realtà, c’erano già al tempo tutti gli elementi per capire che la prima sentenza era quantomeno esagerata.
Mi sembra però ci siano pochi dubbi: quella dei link è una lenta agonia; un costante depotenziamento che, di fatto, sta portando alla loro progressiva scomparsa.
Quella dei collegamenti ipertestuali per la loro portata rivoluzionaria è una “storia” dal potenziale dirompente che, però, non si è mai compiuta davvero seppure iniziata già all’epoca dei floppy disc e poi dei primi CD-ROM prima ancora dell’esplosione del web.
Oggi il loro irreversibile declino sembra ancora più segnato di fronte all’affermazione dei social a preponderante contenuto video, come Instagram e TikTok, che li hanno quasi completamente esclusi.
Un declino che subirà un’accelerazione con con l’ascesa dell’AI generativa — da ChatGPT a Google AI Overview — con la capacità di fornire a ogni nostra domanda testi esaustivi, “fatti e finiti” (per questo, anche se da qualche parte c’è un link nessuno, probabilmente, lo cliccherà).
Già da tempo i link nelle redazioni giornalistiche sono stati, di fatto, banditi: quelli esterni guardati molto più come minaccia che come risorsa (“perché mai dovremmo far uscire un lettore dal nostro sito?”) permettendo al massimo quelli “interni” (ma con moderazione), e poi praticamente scomparsi del tutto dagli articoli.
Il libro nella nella versione kindle ha da sempre come ambizione massima quella di essere la replica più somigliante possibile di quello cartaceo (tranne qualche feature multimediale in genere poco utilizzate).
La filiera editoriale-libraria non ha mai avuto interesse ad accettare le reali sfide dell’ipertesto (che fine ha fatto il sogno di un romanzo che, grazie agli hyperlink, si espande nelle “tre dimensioni”?), il suo impatto con il digitale ha avuto, semmai, come principale conseguenza quella di assoggettarsi alle regole distributive di Amazon.
Insomma, nonostante le enormi potenzialità nel dare una nuova dimensione a qualsiasi testo (testo nel senso più ampio del temine) rispetto a come pensato e progettato nell’analogico, il link è stato identificato sempre più in questi anni come un “corpo estraneo” da estromettere.
Non abbiamo capito il vero potenziale dei link. Lo intuiamo adesso che la sua annunciata scomparsa, il tanto temuto “zero-clic”, minaccia di sparigliare economicamente nuovamente tutto. Ma il suo valore – la sua capacità di connessione – va al di là di quello meramente economico.
È troppo tardi per rimediare?
Benvenuta, benvenuto, io sono Lelio Simi e questo è il novantaquattresimo numero di #Mediastorm una newsletter di appunti, storie, segnalazioni, dati e approfondimenti per capire come la tecnologia ha trasformato/sta trasformando/trasformerà l’economia delle industrie dei media e il nostro rapporto con i loro “prodotti”. Se non lo sei già, puoi iscriverti da qui:
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🟠 Il quadro generale
Quasi dici anni fa in un articolo di Fortune, Facebook, Twitter and the death of the link, l’esperto di meda Matthew Ingram scriveva:
“Se hai una certa età, il web ha una sola cosa al suo centro, e questo è l’hyperlink: quel collegamento blu che lega una pagina a un’altra, creando una sorta di rete di URL ad incastro che circonda il globo. Ma se sei una persona che vive sui social network come Facebook, Twitter e Snapchat, i link non contano altrettanto perché non li vedi quasi mai e, anche se li vedi, probabilmente non li clicchi mai”.
Nel pezzo si faceva particolare riferimento — e a rileggerlo oggi fa una certa impressione — agli allora nuovi formati pensati per “aiutare gli editori” gli Instant Articles (Facebook) e Moments (Twitter) dei quali, oggi, non c’è più traccia, totalmente abbandonati per il completo fallimento della “collaborazione” tra i social media e gli editori, rivelatasi decisamente molto meno proficua di quanto gli editori stessi (ingenuamente) si aspettavano.
Ingram ne intuiva già le ragioni:
Il motivo dichiarato degli Instant Articles di Facebook è aiutare gli editori ad accelerare il caricamento dei loro articoli sui dispositivi mobili. Ma dal punto di vista del social network, il vantaggio principale è che mantiene le persone all’interno di Facebook, perché di fatto non c’è alcuna possibilità di cliccare e andare da qualche altra parte.
Negli ultimi dieci anni, in effetti, i giardini recintati sono diventati sempre più recintati, il segnale è stato proprio la progressiva marginalizzazione dei link.
Non a caso oggi nei social è pratica comune non utilizzarli per niente o relegarli, per non essere declassati dagli algoritmi: “in bio” oppure “nel primo commento” secondo i dettami della social media strategy (ma sarà poi vero che bisogna tutti assoggettarsi, da bravi scolaretti, a queste regole?).
Anche i siti dei grandi giornali sono diventati quasi tutti, lo sappiamo bene, dei giardini recitanti pronti ad accoglierci, appena ci presentiamo all’ingresso, con un pop-up che ci chiede di sottoscrivere un abbonamento (o almeno di togliere il blocca-pubblicità per leggere due o tre articoli gratis).
In questo scenario “chiuso” ermeticamente è facile intuire come si stia definitivamente affermando quell’idea molto radicata nelle redazioni che i link esterni siano uno strumento assolutamente da evitare.
D’altra parte l’informazione nella dimensione social — in particolare, come detto, sulle piattaforme emergenti come Instagram e TikTok — si sta adeguando con contenuti “autoconclusivi” nei quali si “spiega bene” (almeno nelle intenzioni) un fatto o una tematica, dando la notizia e la sua contestualizzazione, nel breve tempo di un video di qualche decina di secondi, senza chiedere al lettore di approfondire da qualche altra parte.
Anche perché in questi format si è ben consapevoli di rivolgersi a un lettore che non ha nessuna voglia di andare da qualche altra parte, e che di lì a poco farà scorrere il suo feed per guardare il contenuto successivo selezionato, per lui, dall’algoritmo proprietario della piattaforma.
🟠 Due punti fondamentali
E qui veniamo a un primo punto fondamentale: nel modello economico dominante delle piattaforme — quelle social o di streaming audio e video, così come i giornali (piattaforme anche loro a tutti gli effetti) — che oggi si pone come obiettivo principale quello di massimizzare il numero di contenuti “consumati” da singolo utente, e dove il tempo trascorso all’interno della piattaforma è un fattore primario per determinarne il valore nel mercato finanziario, il link esterno non può che essere un oggetto estraneo da marginalizzare.
Anche se i link continuano a esistere, messi lì da qualche parte, le modalità di lettura sono guidate da un’esperienza d’uso progettata e realizzata per depotenziarli, per farci sentire il meno possibile l’esigenza di usarli.
C’è un secondo punto fondamentale: sebbene la subscription economy sia oggi il modello dominante nelle industrie dei media, tutti hanno ancora bisogno di ricevere quantità notevoli di traffico — non ci si assoggetta più, forse, all’ossessione di incrementarlo a qualsiasi costo, ma resta fondamentale — perché, per continuare a convertire i normali visitatori in abbonati, c’è comunque bisogno che, alla fonte del percorso, la bocca dell’imbuto non si restringa ulteriormente.
Per quanto bravo tu possa essere il tasso di conversione in abbonati paganti sarà sempre una frazione minima del traffico ricevuto; così come coloro che ti seguiranno nelle iniziative premium come corsi o eventi a pagamento.
🟠 Per concludere
Ecco perché fa tanta paura il lancio di Google AI Overview — il cui impatto è giudicato potenzialmente catastrofico dagli editori americani— che sembra trasformare, anche il più grande motore di ricerca, in un giardino recintato (le tanto temute ricerche zero-clic sono ad oggi il 25,6% del tortale, secondo gli studi più accurati).
Ma c’è da sottolineare che la strada intrapresa da Google è questa. Già da tempo, ad esempio, propone ad inizio della pagina dei risultati delle ricerche delle schede sempre più dettagliate, funzionali e sufficienti a dare tutte le principali informazioni al lettore senza che questi abbia bisogno di trasferirsi altrove.
Il nuovo mercato dell’attenzione assomiglia sempre più ad un gioco a somma zero, dove tutti hanno bisogno di ricevere traffico e nessuno è disposto a trasferirlo.
Esistono però rapporti di forza consolidati in questo scenario nel quale tutti alzano recinzioni: i grandi latifondisti dettano le regole e i piccoli proprietari terrieri sperano di strappare qualche buon accordo.
I collegamenti ipertestuali, oggi resi mera struttura tecnica invisibile potevano (possono ancora?) essere l’elemento attorno al quale sviluppare una Rete aperta, con una logica — anche economica — diversa.
Chi oggi si trova al livello più basso della catena alimentare, come gli editori di giornali tra i primi a non credere alle potenzialità dei link, potranno mettere anche questo tra le cose che, nel loro passaggio al digitale, era meglio fare in modo completamente diverso.
#Mediastorm è anche il titolo del mio libro edito da Hoepli nella collana Tracce, qui la sua scheda, Lo puoi trovare in libreria oltre che sui principali store online → Hoepli, Amazon, Bookdealer, Ibs, Feltrinelli, Mondadori.
È davvero tutto per questo numero, grazie per aver letto fino a qui.
Alla prossima puntata.
Lelio.
È un punto di vista interessante e un dibattito estremamente attuale, posso però dirti che da professionista della SEO editoriale i link interni hanno estrema importanza nel creare un ecosistema di contenuti, nonché nel consolidare la struttura delle sezioni del sito. Anche i Link esterni, ad esempio a studi scientifici, risultano importanti, soprattutto quando parliamo di segnali E-E-A-T rilevati da Google. Per il resto, il futuro, come sempre, è da scrivere. Grazie per la tua riflessione!