#Mediastorm 41 – Quantità vs qualità
Si fa presto a dire: "produrre meno ma meglio", ma cosa vuol dire davvero nella subscription economy cresciuta nel culto dell’iper-produzione?
“Quando Netflix starnutisce il resto di Hollywood ha un infarto” è un incipit fantastico — lo ha scritto, qualche giorno, fa il giornalista Ryan Faughnder nel suo pezzo per il Los Angeles Times — rende molto bene l’idea di quanto gli stravolgimenti delle strategie di Netflix possano avere effetti importanti su tutta l’industria cinematografica (e aggiungerei tutta quella dei media, in generale, visto che il suo modello è un punto di riferimento per moltissimi editori e moltissime media company).
Cosa succede oggi che Netflix, a causa pesante ridimensionamento a Wall Street (-67% da inizio anno), dichiara di licenziare 150 persone e ridurre di un miliardo di dollari il suo budget di quest’anno dedicato alle nuove produzioni? (nota: è bene precisare, il budget rimane comunque enorme, visto che era prevista una spesa di 18 miliardi di dollari).
Per il momento, anche Disney taglia per un miliardo gli investimenti per le nuove produzioni e David Zaslav, l’uomo che gestisce la fusione dei due colossi Discovery e Warner Media, ha già annunciato tagli per 3 miliardi (oltre a chiudere CNN+ dopo appena un mese dal suo lancio).
La corsa alla spesa nello streaming è stata alimentata dagli investitori finanziari che hanno utilizzato la metrica degli abbonati per far crescere il valore delle azioni e far fluire nelle casse di Netflix denaro a prezzi stracciati, ma da un po’ di tempo le cose si sono complicate (già prima di quest’ultimo tonfo in Borsa, il rallentamento nella crescita dei nuovi abbonati era stato un segnale di allarme).
Oggi si devono razionalizzare i costi e una delle critiche più insistenti fatte a Netflix è che la sua programmazione è scaduta di livello. Ma è veramente così? Sta di fatto che in un mercato con sempre più concorrenti, Netflix e gli altri streamer devono cercare comunque di elevare la qualità di quello che fanno, per mantenere i loro abbonati e cercare di attirarne di nuovi ma, nello stesso tempo, devono rallentare e cercare di spendere meglio i loro soldi.
Con un’altra frase particolarmente indovinata Faughnder scrive che si trovano nella situazione di un conducente che, contemporaneamente, deve spingere sull’acceleratore e tirare il freno a mano.
La subscription economy — l’economia degli abbonamenti digitali — è cresciuta nel culto dell’iper-produttività, riversando sul mercato una quantità mai vista prima di contenuti; è stato così non solo per Netflix ma anche per tutti gli altri, dai suoi concorrenti “diretti” (Disney+, Amazon Prime Video) fino agli editori come il New York Times o il Financial Times che oggi puntano tutto sugli abbonamenti digitali. Possono ancora permetterselo?
Benvenuta, benvenuto, io sono Lelio Simi e questo è il quarantunesimo numero di #MEDIASTORM una newsletter di appunti, storie, segnalazioni, dati e approfondimenti su come la tecnologia ha trasformato/sta trasformando radicalmente le industrie dei media (e il nostro rapporto con i loro “prodotti”).
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Il contesto generale
La corsa all'iper-produttività finalizzata alla crescita degli abbonati lanciata da Netflix (dal 2019 al 2021 ha speso 55 miliardi di dollari in programmi TV e film) e imitata dei suoi concorrenti ha portato, stimava il Financial Times in un articolo di fine anno scorso, a una spesa complessiva delle prime otto media company americane di 115 miliardi di dollari per il 2022: l'unico modo per competere sembrava a tutti fosse spendere sempre più soldi in contenuti premium ma proprio questo, già da qualche tempo, ha indotto alcuni investitori a chiedersi se lo streaming video non si dirigesse velocemente verso il suo limite di saturazione.
Sempre il Financial Times in un articolo più recente (aprile di quest’anno) fa notare che:
“La crescita dell'industria dello streaming si è basata sull’idea che esistesse un mercato globale composto da un miliardo di famiglie disposte a pagare per i servizi di video on demand. Ora, alcuni analisti affermano che il mercato reale potrebbe essere molto più piccolo e che è tempo di ripensare al business dello streaming nel quale Netflix ha aperto la strada”.
In cerca di rilevanza
Il punto è che anche a Netflix sono consapevoli di dover migliorare la qualità della loro programmazione, Reed Hastings e Ted Sarandos i due CEO, lo hanno ammesso e, citando ancora l’articolo del Financial Times:
“Netflix deve creare molte più serie TV e film ‘imperdibili’ che possano diventare dei franchise. Il contenuto di Netflix, in particolare quello in lingua inglese, semplicemente non ha risonanza rispetto al livello di spesa”.
C’è un’infografica interessante relativa ai contenuti originali delle principali piattaforme nel primo trimestre del 2022 e realizzata da Parrot Analytics (l’ho già pubblicata in un numero di #Mediastorm ma ha valore riprenderla), si basa su una metrica, messa a punto da questa società di analisi, che misura la domanda di un contenuto.
La prima cosa che si nota è la densità di contenuti originali prodotti da Netflix rispetto ai concorrenti; la seconda è che la stragrande maggioranza di questi suoi originals è finito “ammassato” nella fascia media, (la categoria “average”): una terra di mezzo così densamente popolata di titoli ne troppo buoni ne troppo cattivi, che finisce per dare l’idea al pubblico che la maggior parte dei programmi di Netflix sia mediocre, al di là anche degli eventuali picchi verso categorie decisamente migliori.
Un obiettivo quindi dovrebbe essere quello di ridurre la densità di titoli distribuendo il budget in un numero minore di titoli ma capaci, in generale, di spostare il baricentro della massa di produzioni verso categorie di interesse più alte. In altre parole: per quanto sia importante realizzare dei blockbuster lo è altrettanto migliorare la qualità del prodotto medio in catalogo a costo di ridurre sensibilmente il loro numero.
Facile a dirsi, ovviamente, ma questa è una delle sfide più importanti per Netflix oggi.
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Stranger Things può invertire la svalutazione del titolo di Netflix?
A proposito di contenuti "eccezionali”: la quarta stagione di Stranger Things è stata appena pubblicata venerdì scorso (solo i primi sei episodi e anche questa è una novità per Netflix, almeno in titoli così importanti). La serie è uno dei più grandi successi della piattaforma, la terza stagione è ormai vecchia di tre anni, l’aspettativa giocoforza verso un suo nuovo capitolo è decisamente molto alta; per questo in tanti si chiedono quanto questa uscita possa cambiare le tendenze a ribasso di Netflix attirando un gran numero di nuovi abbonati.
Un articolo molto interessante della newsletter Buffering di Volture, curata dal giornalista John Adalian, analizza un po’ di cose su quanto davvero la pubblicazione di un titolo così importante per Netflix possa realmente mutare i recenti numeri negativi dell’azienda.
Le premesse potrebbero anche esserci: in fondo dal luglio 2019 data di pubblicazione della terza serie a oggi, Netflix ha quasi 70 milioni di abbonati in più, che potrebbero contribuire a spingere Stranger Things tra i più grandi successi di sempre dell’era dello streaming.
Eppure nonostante questa uscita, Netflix ha previsto un calo di due milioni di abbonati per questo trimestre; è questo un dettaglio importante perché è lecito domandarsi: quante sarebbero state, allora, le perdite in abbonati senza la pubblicazione di un titolo così importante e difficilmente replicabile ogni trimestre?
Come fa notare Adalian c’è, inoltre, da sottolineare che i quasi tre anni che separano la quarta dalla terza stagione coincidono con un periodo di stravolgimenti nel mercato dello streaming video con molte nuove piattaforme scese in campo, a cominciare da Disney+ che ha fatto coincidere con quella di ST4 la data di pubblicazione dei primi due episodi del suo titolo più importante, la serie Obi-Wan Kenobi, nuovo capitolo di Guerre Stellari, uno dei franchise più fortunati di sempre.
Per questo ci sarà una grande attesa sui dati relativi alla performance di Stranger Things 4 ma soprattutto sui numeri relativi ai prossimi trimestri di Netflix:
Tuttavia, il numero più importante arriverà quando la società pubblicherà i risultati del secondo e terzo trimestre. Se Netflix ha visto giusto nelle proprie proiezioni e perde due milioni di abbonati - o fa anche peggio - alcuni potrebbero provare a dare la colpa alla risposta del pubblico a Stranger Things 4. Ma mentre potrebbe suggerire che il colosso delle serie ha rallentato un po’, non credo che sarebbe necessariamente un segno che il pubblico ha, in qualche modo, perso interesse per Stranger Things. Il fatto è che, come osserva Julia Alexander, analista di strategia senior di Parrot, i problemi di Netflix non dovrebbero essere ricondotti al declino di un paio di franchise o al calo della qualità di un singolo titolo. Nemmeno Stranger Things può da solo creare uno splash abbastanza grande da convincere le persone a restare”.
E quindi torniamo a quanto scrivevo poco sopra, il vero obiettivo per Netflix non è soltanto essere capaci di realizzare grandi successi (cosa che deve fare ovviamente) ma di elevare il livello medio delle sue produzioni, facendo meno ma investendo meglio il suo budget. La quantità non è più così importante come in passato per fare dire alle persone che hai il catalogo migliore; non è una svolta da poco per come funzionava, fino a oggi, l’industria dello streaming.
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Fare meno, fare meglio (l’esempio del Financial Times)
Al Financial Times, che nel 2020 ha raggiunto il milione di abbonati digitali (una pietra miliare per qualsiasi editore di giornali oggi), è stata attivata da un po’ di tempo una divisione interna — FT Sreategies — che ha gestito la trasformazione digitale proprio per raggiungere questo obiettivo, introducendo strumenti e metodologie basati sui dati.
Da sottolineare che proprio uno dei principali obiettivi dichiarati di queste strategie è:
“ridurre del 15% ogni anno il volume dei contenuti creati per dedicare più tempo al giornalismo di qualità”.
Una delle fasi fondamentali per raggiungere questo obiettivo per FT Strategies è stata, come spiegano loro stessi, introdurre la cultura dei dati all’interno della redazione, per far valutare ai giornalisti la “qualità” dei contenuti realizzati attraverso un parametro basato sul reale coinvolgimento del lettore e non semplicemente i clic. Per facilitare il loro lavoro in questa fase i contenuti sono stati suddivisi in quattro categorie:
Ad alte prestazioni (visualizzazioni di pagina elevate e letture di alta qualità);
Nicchia ma coinvolgente (visualizzazioni di pagina basse e letture di alta qualità);
Hai bisogno di uno sguardo più da vicino (visualizzazioni di pagina elevate, letture di bassa qualità). In questo caso, il titolo potrebbe essere fuorviante, l'articolo potrebbe essere leggermente troppo lungo (forse avremmo potuto aggiungere dei suggerimenti per aiutare il lettore a leggere il pezzo?);
Candidati per il taglio (visualizzazioni di pagina basse, letture di bassa qualità). In questo caso, dovremmo chiederci se avremmo dovuto realizzare questo contenuto.
È interessante guardare queste linee guida. Al di là del “bene-bene”, la prima tipologia di contenuto e “male-male” (la quarta e ultima tipologia di contenuto, da scartare), i contenuti che hanno buone performance nei coefficienti di qualità ma scarsi nelle visualizzazioni, non sono affatto da scartare ma da valutare, potrebbero aver individuato una nicchia di lettori da valorizzare perché, potenzialmente potrebbe avere un alto tasso di conversione in abbonati o coefficiente di fedeltà nel tempo.
Al contrario i contenuti che rientrano nella la terza categoria — basso coinvolgimento ma tanti clic — sono da correggere, ed eventualmente scartare, perché probabilmente hanno ottenuto quei numeri grazie a “trucchetti” che però finiranno per deludere il lettore che perderà fiducia nella testata (quindi sono da scartare) o realizzati in un formato che non mantiene alto il suo interesse (quindi da rivedere e correggere).
👋Prima di salutarci…
A proposito di qualità e subscription economy, può essere interessante guardare nel dettaglio la spesa del New York Times relativa allo “sviluppo prodotto” in questi ultimi anni. C’è da dire che questa voce, come specificano nei documenti di bilancio è riferita unicamente allo sviluppo in tecnologia del “prodotto” destinato al digitale (e in particolare finalizzato all’incremento degli abbonamenti digitali).
Ho quindi realizzato questa infografica dove, oltre ai costi impegnati nel miglioramento dei prodotti digitali, ho indicato anche il loro peso percentuale in rapporto ai ricavi totali del Times.
In questi ultimi quattro anni il budget impegnato alla voce “product development” è quasi raddoppiato: da 84 milioni di dollari del 2018 ai 160,8 milioni del 2019 (e in linea con quest’ultimo dato quelli del primo trimestre del 2022). Il peso sui ricavi è passato invece dal 4,8% del 2018 all’8,8% del primo trimestre di quest’anno.
#Mediastorm: una newsletter di appunti e idee sul nuovo ordine mondiale dei media a cura di Lelio Simi - n° 41 - 29 maggio 2022.
→ #Mediastorm è anche il titolo del mio libro edito da Hoepli nella collana Tracce, qui la sua scheda, Lo puoi trovare in libreria oltre che sui principali store online → Hoepli, Amazon, Bookdealer, Ibs, Feltrinelli, Mondadori.
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