#Mediastorm 35 – Segmentare
L'offerta nella subscription economy si è sviluppata sostanzialmente intorno all'idea di un'unica tipologia di utente, è ora di cambiare?
Il Financial Times ha inaugurato una nuova app, FT Edit, il primo mese è gratis i successivi sei il costo è di 99 pence (circa 1,20 euro) e poi passa a 4,99 sterline (circa 6 euro); come detto è una app quindi disponibile solo per smartphone e consiste, sostanzialmente, in una versione molto semplificata (una selezione di otto articoli) di quella principale, che costa circa 35 sterline.
Fin qui niente di eccezionale visto che è prassi comune lanciare abbonamenti a prezzi economici per attirare nuovi abbonati.
L’elemento interessante però qui è il fatto che dal FT dichiarano che l’obiettivo del prodotto non è indurre gli utenti “catturati” con questa offerta a sottoscrivere poi abbonamenti completi, ma attingere ai 26 milioni di persone che pur seguendo il giornale sui social media decidono di non sottoscriverne uno: “Siamo davvero fiduciosi nei nostri reportage. Abbiamo investito molto nel nostro reporting” ha dichiarato il responsabile del progetto a Press Gazzette. “E penso che vogliamo mostrarlo un po’ di più. L'ipotesi che avevamo [per questa app] era che il pubblico al quale proporla siano persone stanche del doom scrolling e del ciclo infinito di notizie, così come di avere tante informazioni che gli vengono lanciate tutto il tempo finendo, in realtà, per non dare una comprensione più ampia delle notizie”.
Quindi come è stato fatto notare non si tratta di attrarre lettori da convertire poi in abbonati “premium” ma di segmentare il tuo pubblico prendendo atto che esistono lettori diversi con esigenze diverse.
Un punto fondamentale, fino ad oggi la subscription economy, la nuova economia degli abbonamenti digitali, è stata costruita intorno a un’unica tipologia di offerta per un’unica tipologia di abbonato: paghi poco (o comunque molto meno che nella versione “analogica”) tutti i mesi e hai accesso a una (più o meno) enorme library. Stop. Quello che è stato definito il modello all you can eat.
Netflix, tanto per fare l’esempio più ovvio, ha costruito la sua fortuna offrendo al costo di un singolo biglietto del cinema un catalogo on demand di migliaia di titoli tra film e serie TV, in contrapposizione alle decine di pacchetti (bundle) con prezzi e contenuti diversi offerti dalle TV via cavo/satellite.
Tutto molto semplice, chiaro ed economico in opposizione a qualcosa di complicato e costoso.
Tutto bene finché Netflix ha rappresentato l’unica alternativa alle TV tradizionali a pagamento, poi sono cominciati ad entrare nel mercato nuovi concorrenti, tutti con offerte economiche, tutti con cataloghi in esclusiva (tendenzialmente) diversi gli uni dagli altri; lo streaming video oggi non è più così conveniente, nel suo complesso, per una famiglia che voglia seguire film, serie TV o eventi sportivi sottoscrivendo 4, 5 o 6 abbonamenti diversi (una volta che le offerte di lancio scadono), per quanto singolarmente più economici dei vecchi “pacchetti”.
Non a caso le piattaforme di video sostenute per intero, o parzialmente da pubblicità, quest’ultime ovviamente con prezzi molto più contenuti di quelle totalmente adless come Netflix, stanno avendo un certo successo.
Una cosa importante: recentemente ha suscitato molto interesse la notizia che la Disney abbia deciso di lanciare per fine 2022 sulla sua principale piattaforma di streaming, Disney+, un abbonamento meno costoso ma supportato da pubblicità: “L’offerta supportata dalla pubblicità è vista come un elemento fondamentale nel percorso della Società per raggiungere l'obiettivo a lungo termine di 230-260 milioni di abbonati per Disney+ entro l'anno fiscale 2024” dichiarano da Disney nel comunicato di presentazione dell’iniziativa.
Anche Spotify ha sperimentato un abbonamento economico a 99 centesimi, ne ho parlato qui.
C’è da tenere presente che la stragrande parte di offerte però continuano a dare accesso a tutti i contenuti delle librerie/cataloghi a disposizione, nello streaming è fondamentale perché la cosa davvero importante è coinvolgere il più possibile l’abbonato: l’unità di misura è quanti titoli vede (o ascolta nel caso dell’audio streaming) un singolo utente, non tanto quanti utenti raccoglie un singolo prodotto (film, serie TV, brano musicale) come nella “vecchia” industria dei media.
Ed è questo un parametro che, verosimilmente, avrà sempre più peso. Netflix di fronte al rallentamento della crescita dei suoi abbonati (se non alla loro decrescita in mercati importanti come il Nord America) dovrà, da oggi in poi, puntare soprattutto a dimostrare ai suoi investitori, che hanno sempre guardato prima di tutto al numero delle sue subscription, di essere capace di aumentare il coinvolgimento (le ore di permanenza sulla piattaforma) dei suoi abbonati.
Tuttavia l’esperimento del FT indica una strada diversa: constatare, piaccia o meno, che c’è un pubblico diversificato con esigenze diversificate alle quali rispondere nel modo più conveniente per chi fornisce contenuti e per chi li riceve; prendere atto che possono esserci persone disposte a pagare per un abbonamento, a loro adeguato, anche se di accedere a tutto l’enorme catalogo a disposizione per leggere notizie 24 ore su 24, fare binge-watching l’intero fine settimana con cinquanta episodi di una serie TV, mettere la funzione repeat per ascoltare una playlist musicale per ore e ore di fila, a loro non interessa affatto, né oggi né domani, e non vogliono pagare lo stesso prezzo di chi può farlo.
Se vuoi aumentare la tua base abbonati, coinvolgerli di più dovrai cercare comunque di dare loro la possibilità di consumare i tuoi “prodotti” nel modo che trovano più congeniale alle loro esigenze, altrimenti ci sarà sempre qualcuno che prima o poi troverà il modo di farlo a tuo discapito.
Funzionerà? Vero l’abbonamento digitale completo al FT è molto è più costoso di quello a Netflix o un altro streamer video o audio, quindi l’app a 99 centesimi rappresenta un’alternativa decisamente più conveniente e può essere, per un potenziale nuovo abbonato, molto più interessante da prendere in considerazione.
Qualche anno fa, nel 2014, il New York Times lanciò una serie di app, tra cui NYT Opinion, che dava la possibilità di leggere una selezione di articoli firmati dai grandi opinionisti del Times; sembrava un progetto editoriale perfetto (non leggiamo tutti il Times attratti dalla più prestigiosa squadra di editorialisti al mondo?), ma invece l’esperimento non ha avuto futuro e l’app è stata chiusa pochi mesi dopo.
Tra le ragioni del fallimento, non ultima, il fatto che l’abbonamento a NYT Opinion costasse poco meno della metà di quanto allora veniva offerto quello principale (6 dollari contro i 15 il mese), troppo per avere una selezione, prestigiosa quanto si vuole, ma così ridotta rispetto all’abbonamento digitale completo.
Da allora però è passato un po' di tempo, il contesto nel quale consumiamo notizie è molto cambiato, probabilmente il New York Times doveva sperimentare ma non poteva permettersi di puntare su progetti che non davano subito una buona risposta. Oggi il Financial Times dichiara (la fonte è ancora Press Gazette) invece che FT Edit è un progetto in continuo sviluppo, “Questo è un grande esperimento per noi. Faremo molte cose diverse su questa app. E quindi quello che vedi ora potrebbe non essere come sarà tra un mese, sei mesi o 12 mesi. Cambierà e si evolverà, ma vogliamo davvero vedere fino a che punto può arrivare”.
Benvenuta, benvenuto, io sono Lelio Simi e questo è il trentacinquesimo numero di #MEDIASTORM una newsletter di appunti, segnalazioni, dati e approfondimenti su come la tecnologia ha trasformato/sta trasformando radicalmente le industrie dei media (e il nostro rapporto con i loro “prodotti”).
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📑Tre storie da leggere (su media e cultura digitale)
1️⃣ L’industrializzazione della vergogna
Se lo shameful-scenario è quello in cui siamo “visti, in modo inappropriato, dalle persone sbagliate nella condizione sbagliata”, come sostiene il filosofo Bernard Williams, allora Internet è il teatro perfetto: online, quasi tutti hanno un pubblico quasi tutto il tempo e le società di social media hanno tutti gli incentivi per portare tutte le Justine Sacco (autrice anni fa di un pessimo tweet che le costò il posto di lavoro) sotto i riflettori. Gli stantii dibattiti sull'etica interpersonale della “cancel culture", osserva O'Neil, hanno a lungo trascurato la misura in cui “i titani digitali, guidati da Facebook e Google, non solo traggono profitto dagli eventi che generano vergogna, ma sono progettati per sfruttarli e diffonderli”.
►The Shaming-Industrial Complex, di Becca Rothfeld sul New Yorker (tempo lettura 15 minuti).
2️⃣ Il metaverso e la Frontiera
Se capiamo poco del web3 e delle recenti svolte di internet, non preoccupiamoci, è normale. Servono nuovi strumenti, e nuove metafore. Dall’acqua si passa ai saloon, agli indiani e ai cowboy. Nei primi tempi, quando internet si poteva ancora navigare, andavano giustamente alla grande le similitudini marittime. La fase nautica è stata divertente per un po’, ma di fatto quando l’oceano di dati era uguale in tutte le direzioni ha iniziato a essere monotono. Quindi è iniziato l’internet 2.0, un lungo e oramai tedioso periodo di pesca a strascico con le reti sociali. E proprio nel momento in cui più o meno tutti si stanno annoiando, ecco che qualcuno avvista terra all’orizzonte: il metaverso.
► Il metaverso è il nuovo west, Dr Pira per Link Idee per la TV (tempo lettura 6 minuti),
3️⃣ Sette cose sulla Rete e la guerra in Ucraina
“A un mese dall’inizio del conflitto, le discussioni in Rete ci mostrano l’oscillazione dello stato d’animo (e dell’interesse) degli italiani. Per le persone, ricostruire una visione d’insieme chiara e univoca sembra impossibile. Tra le altre cose, i dati che abbiamo raccolto ci ricordano il pericolo di arrivare troppo velocemente a una saturazione di informazioni e stimoli su un argomento. L’essere umano non riesce a rimanere in uno stato di ansia o paura troppo a lungo: fisiologicamente, più un fenomeno si dilata nel tempo, più siamo programmati per perdere interesse”
►La guerra in Ucraina e la Rete: come stiamo cambiando, una serie di riflessioni interessanti di Alice Avallone su BeUnsocial, ispirate da un report “La guerra e la Rete” (tempo lettura 15 minuti).
📈 Chart, chart, chart
🎵 I ricavi dell’industria della musica registrata dal 1999 al 2021, divisi per tipologie di ricavo, un grafico pubblicato sul Global Music Report edizione 2022 del Ifpi (l’associazione mondiale dei discografici).
📺 L’andamento del titolo di Netflix è tornato a marzo ai livelli pre-pandemia, vanificando quindi l’enorme crescita avuta in quel periodo (su Bloomberg qualche dettaglio in più).
👋Prima di salutarci…
“Invecchierà mai questo manifesto?” giustamente scrive l’account Instagram di Storia della Pubblicità, il manifesto è relativo a una campagna Pubblicità Progresso lanciata nel 1973 che aveva come obiettivo il rispetto delle opinioni degli altri (altro materiale relativo a questa campagna lo trovate qui).
#Mediastorm: una newsletter di appunti e idee sul nuovo ordine mondiale dei media a cura di Lelio Simi - n° 35 - 4 aprile 2022.
→ #Mediastorm è anche il titolo del mio libro edito da Hoepli nella collana Tracce, qui la sua scheda, Lo puoi trovare in libreria oltre che sui principali store online → Hoepli, Amazon, Bookdealer, Ibs, Feltrinelli, Mondadori.
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[Per leggere questa newsletter sul web clicca sulla testata. L’immagine del logo e nella testata di #Mediastorm è di Francesca Fincato].