#Mediastorm 06 - Per capire i media digitali stiamo utilizzando le metriche sbagliate?
Quando la Nielsen ha pubblicato la classifica dei programmi più seguiti negli Stati Uniti sulle piattaforme di streaming per la settimana dal 10 al 16 maggio in molti si sono sorpresi: al primo posto, con notevole distacco sul secondo classificato, c’era Jupiter’s Legacy una serie TV che Netflix aveva deciso di chiudere già alla prima stagione. Perché un titolo che ha un così grande successo viene interrotto bruscamente?
Sono state fatte molte ipotesi: un costo comunque molto elevato (si parla che dai previsti 130 si sia passati ai 200 milioni di dollari spesi per questa produzione), la possibilità di “riciclare” la serie in un’altra produzione e scalare meglio i costi. C’è poi da sottolineare come i dati della Nielsen riferiti allo streaming, pur essendo preziosi, hanno dei grandi limiti, sono relativi alle sole TV connesse a Internet e ai soli Stati Uniti, e sappiamo quanto per piattaforme come Netflix o Disney+ siano importanti anche smartphone, tablet e l’internazionalizzazione delle loro produzioni.
C’è poi un punto fondamentale: Nielsen misura solo il tempo trascorso a guardare un titolo (lo screentime), ignorando tutte le altre metriche che invece Netflix prende in considerazione e che, probabilmente, considera molto più importanti per giudicare il valore di una serie TV del suo catalogo, come ha scritto Lucas Shaw nella newsletter Screentime di Bloomberg:
Solo Netflix sa quanto sia popolare un suo programma.
E qui sta uno dei dilemmi più sconcertanti dei media moderni. Stiamo entrando in un mondo in cui sta diventando sempre più difficile determinare cosa è popolare e cosa no.
Benvenuta, benvenuto io sono Lelio Simi e questo è il sesto numero di #MEDIASTORM una newsletter di appunti, segnalazioni, dati e approfondimenti su come la tecnologia ha trasformato/sta trasformando radicalmente le industrie dei media (e il nostro rapporto con i loro “prodotti”).
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A Netflix sanno tutto quello che un loro abbonato fa dentro la piattaforma, quanto e soprattutto “come” guarda un film o una serie TV. Conoscono anche quante persone tra coloro che hanno visto un determinato titolo hanno poi deciso di non rinnovare l'abbonamento o se, invece, dopo la sua visione hanno deciso, ad esempio, di guardare altre produzioni con gli stessi attori o realizzati dallo stesso regista oppure dello stesso specifico genere (Netflix ne ha “inventati” a migliaia per classificare e monitorare al meglio le abitudini di consumo dei suoi abbonati).
Per un’azienda come Netflix che vive di soli abbonamenti cosa ha più valore? Una serie TV, un film con un milione di spettatori tra i quali però, in molti decidono poi di non rinnovare l'abbonamento per il mese successivo (il temutissimo churn rate) e in molto pochi, dopo la sua visione, si interessano a produzioni dello stesso genere proposte nella library oppure una serie TV con la metà di quegli spettatori ma con un “tasso di fedeltà” nettamente più alto?
Sono solo un paio di esempi di metriche che possono essere utilizzate con estrema precisione da Netflix e oggi, se la loro tecnologia è altrettanto evoluta, da Disney+ o un qualsiasi altro streamer, per decretare il reale valore di una loro produzione, quella più utile a sostenere il loro modello di business che ha, lo ricordo, alla base il fatto di poter raccogliere, leggere e catalogare qualsiasi cosa avvenga dentro le loro piattaforme.
Ha senso per una major determinare il valore di un film nel circuito delle sale cinematografiche (o per un broadcaster di uno show televisivo) in base al numero di persone che lo hanno visto, certo, ma quanto ne ha per Netflix e soci farlo per un titolo della loro library?
E questo può valere non solo per i giganti dello streaming video ma per tutti i media digitali, da Spotify a YouTube fino al sito del New York Times o quello di Repubblica. Eppure quello che si continua a fare è trasferire un numero molto limitato di metriche dell’era pre-digitale nel mondo digitale cercandone il corrispettivo: numero di spettatori uguale numero visualizzazioni, numero di copie vendute (o diffuse) uguale utenti unici. Quanto è utile per misurare e capire i media digitali nel 2021?
Prendiamo il mondo dei giornali e guardiamo in casa nostra: le classifiche dei siti più visitati, quelle ad esempio di Audiweb, forniscono i sia i dati relativi al numero di utenti nel giorno medio, sia il numero di pagine viste e il tempo medio di permanenza per utente, queste ultime due metriche però generalmente vengono poco considerate; il riferimento principale resta il numero di utenti unici nell’ordinare le classifiche mensili (“il sito del Corriere supera Repubblica”, “Fanpage conquista nuove posizioni tra i top 10 dei siti d’informazione”).
Ha abbastanza senso farlo per le copie di carta in un sistema sorretto economicamente sulla pubblicità, in un mondo dove molti altri dati non sono disponibili: gli identikit del lettore dei singoli giornali, sempre un po’ incerti, di Audipress servono giusto per capire se una testata è più adatta a una réclame di un’auto sportiva o di un detersivo per lavastoviglie.
Ma per un sito web quanto ha ancora valore, quando altre metriche ci possono dire quanto quel lettore è coinvolto? Quali dati determinano i prezzi del loro listino? Qualche anno fa alcune grandi testate internazionali, Financial Times ed Economist, proposero una tariffa pubblicitaria basata sul tempo di lettura non sui clic, credo che la cosa non abbia avuto molto seguito da allora.
Nella subscription economy, la nuova economia degli abbonamenti digitali, che oggi anche in Italia molte testate stanno sposando, quali metriche bisogna utilizzare per determinare il “valore” di un articolo, un reportage, uno “spiegone”? Lo si misura in numero di clic, di pagine viste oppure anche nel suo tasso di conversione nel creare nuovi (o mantenere quelli già esistenti) abbonati o “donatori”?
Parlando con colleghe e colleghi che lavorano dentro redazioni chiedo spesso loro che tipo di dati vengono forniti, che livello di “cultura” del dato hanno in riferimento a quello che producono sul web, spesso ricevo risposte vaghe e leggermente imbarazzate, «ci dicono gli articoli più visti e gli argomenti che hanno “funzionato” di più»; per carità il mio non è affatto un campione rilevato scientificamente ma è comunque abbastanza deprimente sentirselo ripetere.
Per determinare un singolo articolo, o un argomento, che “funziona” probabilmente oggi per il sito di un giornale è più utile capire il suo tasso di conversione in abbonamenti basic oppure, se si è diversificato l’offerta su più di un livello, in quelli premium a più alta fascia di prezzo. Così – sorpresa – magari è possibile determinare che una serie di articoli su una tematica pur avendo raccolto meno clic o pageview rispetto ad altri, possono essere molto più funzionali a incrementare il proprio sistema di business.
E qui c’è da mettere un altro punto: la capacità di elaborare dati e saperli leggere nel minimo dettaglio oggi, è un prerequisito, c’è bisogno poi anche di strategie editoriali che non siano ancora, perlopiù, basate su metriche ereditare dal mondo pre-digitale (detta un po’ brutalmente: cerchiamo di vendere più copie possibili uguale cerchiamo di fare più pageview possibili e non preoccupiamoci di altro).
Netflix lo ha capito da tempo, e si è attrezzata per farlo, lo hanno capito con un po’ di – comprensibile – ritardo anche “vecchi” dinosauri come la Disney o il New York Times.
Un'ultima considerazione: come sottolinea anche Lucas Shaw nella sua newsletter, Netflix non rivela alcuna metrica sulla quale basa, concretamente, il valore delle sue produzioni e, questo, è un problema. Se diventa la prassi comune anche per tutte le altre – nuove o vecchie – media company su digitale.
Serve più trasparenza per il mercato e per chi deve raccontare questo mondo agli utenti, cioè alle persone, affinché non si perpetui il paradosso già visto, ad esempio, nella pubblicità digitale dominata dalle big tech dove le metriche sono sacre ma determinare il loro reale valore è praticamente impossibile.
📉 Chart della settimana
Prendete questa chart come un esperimento, visto che ho parlato nell’apertura di questa newsletter dei dati Audiweb e di metriche, ho provato a mettere i tre dati forniti dalla società di certificazione relativi alle testate online – utenti unici, pagine viste e tempo speso per persona – in un’unica infografica.
Ho selezionato e diviso per colore i legacy media, o media mainstream cioè quelli che hanno la loro attività principale non online (comprese le agenzie come Ansa) dagli all digital. Ne ho selezionati dieci per queste due categorie a secondo della loro audience e anche in base alla loro attività. Ho dovuto convertire il tempo speso da minuti in ore espresse in scala centesimale per farlo leggere correttamente dall’editor di grafica (di solito uso infogram).
Nei dati Audiweb mancano alcuni importanti siti online come TPI oppure Open (come per ADS vengono rilevate solo le testate che aderiscono), quindi ovviamente non compaiono nemmeno nella chart. Su alcuni dati forniti ho qualche dubbio (ad esempio il tempo medio speso da un utente su Dagospia: 6 minuti e 56), ma quelli sono e quindi li ho utilizzati.
Consiglio comunque di guardare la versione interattiva perché si apprezzano meglio alcuni dettagli.
⭐tweet della settimana
Visto il tema di questa settimana è molto interessante questa, giusta, provocazione e anche le risposte che ne sono nate, che consiglio di leggere.
#Mediastorm: una newsletter sul nuovo ordine mondiale dei media a cura di Lelio Simi - n° 06 - 11 luglio 2021.
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[L’immagine del logo e nella testata di #Mediastorm è di Francesca Fincato].